martedì 30 novembre 2010

L'Argent


In Piazza dei Signori a Padova luci e bancarelle prenatalizie, due ragazze parlano sedute sui gradini del Palazzo del Capitanio, un faro proietta l'immagine di una Madonna con bambino sulla facciata della chiesa di San Clemente. La gente corre infreddolita, forse verso casa, qualcuno raggiunge l’Mpx, l’hanno chiamata così, l’acronimo sta per Multisala Pio X. Comincia il film L’argent (Il denaro) di Robert Bresson, una storia lenta ma inesorabile, una storia di solitudine e rabbia scandita da pause, silenzi, dettagli. Al termine del film Umberto Curi propone alcune riflessioni sia sul regista che sul film. “Bresson – spiega – distingueva tra cinema come teatro filmato e cinematografo come linguaggio originale. Bresson procede per ellissi, per sottrazioni, non vediamo mai l’azione delittuosa, ne vediamo le premesse e le conseguenze; la recitazione è quasi cancellata, i personaggi si muovono ai limiti dell’autismo, sono “delle macchine di trasferimento delle parole”, anche la musica che in molti film è utilizzata come sottolineatura qui è assente tranne in una scena dove ha una precisa funzione narrativa; sono presenti invece e con un ruolo non secondario i rumori: una sirena, un mestolo che rotola sul pavimento, una porta che si chidue.” Alto e voce sicura, con alle spalle un palcoscenico vuoto e davanti a sé un centinaio di persone sparse tra le sedie rosse della sala, Curi prosegue nelle sue riflessioni. “Il denaro in questo film, per usare un’espressione di Lutero, è “lo sterco del diavolo” e non è l’oggetto ma il soggetto, il “dio invisibile”. Sono evocati due maestri del pensiero, uno è Georg Simmel che nella sua opera “Filosofia del denaro” descrive la sua capacità di trasformare qualsiasi qualità in quantità, l’altro è Karl Marx che nel primo libro de Il Capitale sostiene che il denaro non è mai solo un mezzo di pagamento della merce ma è un soggetto che tende ad autovalorizzarsi, cioè il denaro tende ad incrementare sé stesso, il denaro in sostanza non è un oggetto, un mezzo, come noi di solito pensiamo, ma un soggetto che usa noi come oggetti, come mezzi, per la sua autovalorizzazione.”
Fuori dal cinema rari passanti, in Piazza dei Signori i bar sono quasi vuoti, davanti al Pedrocchi un musicante dell’Est suona la tromba, il motivo è Besame mucho.

Nostalgia

Abbiamo sempre nostalgia di qualcosa
forse del tempo che passa
o del tempo che vorremmo vivere in un modo diverso
ma anche dei luoghi che non vedremo forse mai
e delle persone
e questa nostalgia ci accompagna
alle volte sembra non esserci
alle volte torna
come le onde del mare

venerdì 26 novembre 2010

I superficiali

Nicholas Carr nel saggio The Shallows. What The Internet Is Doing To Our Brains (I superficiali. Come Internet influisce sui nostri cervelli) sostiene, sulle tracce di McLuhan, che tendiamo a concentrare l' attenzione sui contenuti, mentre a contare sono piuttosto gli effetti «antropologici» che il mezzo tecnico in quanto tale produce su di noi, modificando in profondità il nostro modo di pensare e agire. Il cervello, afferma Carr citando le più recenti scoperte della neuroscienza, è un organismo plastico, che viene continuamente rimodellato dall' esperienza, potenziando certi collegamenti e «amputandone» altri, a mano a mano che non vengono più usati. A fare problema non è il fatto che non leggiamo più, bensì il fatto che leggiamo su vari tipi di schermo invece che su pagine a stampa: chi legge un libro impegna le aree cerebrali associate a linguaggio, memoria e processi visuali, chi legge una pagina web o un ebook usa le regioni prefrontali associate all' assunzione di decisioni e alla risoluzione di problemi (deve valutare se seguire o no un link, elaborare i diversi stimoli multisensoriali indotti dalla multimedialità, eccetera). Ecco perché stiamo «amputando» le abilità associate alla cultura del libro (ragionamento astratto e sequenziale, pensiero individuale lento e profondo...) per sviluppare quelle associate alla cultura dello schermo (saltare rapidamente da un argomento all' altro restando in superficie, reagire fulmineamente a stimoli che sollecitano contemporaneamente sensi diversi...). Di per sé ciò non è né bene né male, ammette Carr, se non che dovremmo essere consapevoli che ci stiamo trasformando in «macchine da lavoro» tagliate su misura per le esigenze della nuova industria culturale: Google funziona come una «macchina taylorista» che quantifica, parcellizza e svuota di senso il lavoro cognitivo, allo stesso modo in cui la catena di montaggio riduceva a mansioni ripetitive il vecchio lavoro artigianale. Siamo sicuri che delegare a dispositivi del genere le funzioni che un tempo affidavamo alla nostra memoria sia una scelta saggia?
Liberamente da La rivincita di McLuhan di Carlo Formenti in Corriere della Sera del 24 novembre.

Esclusione sociale


Bauman sostiene che l'"esclusione sociale" di cui oggi si discute non è che un'estensione del postulato di Schmitt secondo cui l'azione più importate di un governo è "identificare un nemico". Questo portò Bauman nel 1969 a sostenere che l'omicidio di mliioni di ebrei non era il risultato del nazismo né l'azione di un gruppo di persone malvagie, ma frutto di una moderna burocrazia che premiava soprattutto la sottomissione e in cui complessi meccanismi nascondevano l'esito delle azioni della gente. L'Olocausto, afferma, non è che un esempio criminale del tentativo dello stato moderno di perseguire l'ordine sfruttando il timore degli "stranieri e degli emarginati". "Una volta escluse dai governi le persone non sono più protette. Le società iniziano a manipolare il timore nei confronti di determinati gruppi. Nelle fasi di crisi del welfare state dobbiamo preoccuparci di questa caratteristica della società".
(da 44 Letters from the Liquid Modern World)

mercoledì 24 novembre 2010

Lo Scrivere

Lo Scrivere non è più oggetto di una Pedagogia (nel senso ampio del termine):
a) Come si sa, non vi è più la Retorica, cioè l' arte insegnabile (da Techne) di parlare per ottenere determinati effetti: il linguaggio non è più concepibile come dispositivo di effetto. Io non insisto sulla Morte istituzionale della Retorica. La retorica si è degradata, tecnocratizzata, è un insieme di "tecniche d' espressione" (che ideologia!), contrazione dei testi, writings, ecc. Ora, vi era un legame stretto fra l' insegnamento retorico e la scrittura degli scrittori di cui ho parlato.
b) Una forma superiore di questa Pedagogia (Psicagogia) dello Scrivere, non più al livello delle istituzioni, degli insegnamenti: c' era intercomunicazione degli scrittori tra di loro sui problemi della Pratica di scrittura. C' era una retorica inter pares: fatta di corrispondenze (Flaubert, Kafka, Proust), e, da un anziano a un più giovane: si trattava di "consigli", come il bel testo di Rilke, Lettere a un giovane poeta. Ora questi "consigli" sono scomparsi: non vi è più "trasmissione".
c) La forma "essenziale" del Consiglio allo Scrittore concerne, alla fine, non la pratica, ma la Volontà stessa di Scrivere: lo Scrivere come telos di una vita, cioè la risposta alla domanda "Devo scrivere? Continuare a scrivere?". Tutti rispondono (Flaubert, Kafka, Rilke): non è una questione di dono, di talento, ma di sopravvivenza; scrivete se siete sicuri che non scrivendo più deperireste. Per chiudere: a partire dalla mia esperienza oggi non vi è più alcuna richiesta di consigli pratici; ma viè sempre una forte richiesta di riconoscimento attraverso la scrittura. Ciò che è cambiato, che è divenuto desueto è non il desiderio di scrivere (è forse trascendente a una società definita), ma la perdita del sentimento che la scrittura è legata ad un lavoro, ad una pedagogia, ad una iniziazione. La pulsione (di scrivere) si manifesta in una sorta di innocenza non realista: rifiuto di pensare la Mediazione; il lavoro non è alla moda!
da La preparazione del romanzo , ed. Mimesis, una raccolta di corsi e seminari che Barthes tenne al Collège de France tra il 1978 e il 1980

domenica 21 novembre 2010

Ulivi sulla pietra

Le ombre degli ulivi sulla pietra, la carezza del vento, il ronzio di un'ape che si allontana, il cielo azzurro sui filari delle viti e la terra rossa, la scala stretta sale verso il cappuccio grigio e bianco di un trullo. Costellazioni familiari che s’incrociano come rami in un girotondo di ricordi e di nomi, in una partita aperta di sguardi, in un luogo sognato che ora accoglie nuovi sogni.
Alberobello, 20 agosto 2010

sabato 13 novembre 2010

Rivelati

La scelta è ampia. Chi prendere come esempio? Da chi imparare? Ma io scarto chi ha scritto prima di me, dimentico tutti, non invito nessuno a mettersi al mio fianco e a guidare la mia penna. Prendo su di me ogni responsabilità per le seicento pagine scritte e per le seicento non scritte, per tutte le confessioni e tutte le riserve. Per il discorso e per le pause. Tutto ciò che è scritto qui è sottoposto a due leggi, che riconosco e osservo: la prima: rivelati sino in fondo, e la seconda: tieni la tua vita per te sola. La prima è di un mio contemporaneo, la seconda è di Epicuro.
Nina Berberova, Il corsivo è mio

mercoledì 10 novembre 2010

Non saper dire

Proust fa uso di una figura retorica di cui si può dire che tutto il suo romanzo è l' illustrazione: la preterizione. Ma si tratta di una preterizione di un tipo molto particolare. Nel suo uso tradizionale, la preterizione consiste nel dire una cosa dichiarando di non volerla dire. È un' astuzia dell' arte oratoria che così finge di giungere più in fretta al termine: «Non ti dico...». Il narratore della Recherche, da parte sua, pratica la preterizione al passato. Descrive un paesaggio, poi una scena, mentre dichiara di non essere stato, allora, in grado di descriverli, di comprenderli, di dargli il loro vero significato. Gli erano sfuggiti. «Non ho saputo dire...». La parola letteraria cerca di riparare una perdita ritrovando (o dichiarando ritrovato) il «tempo perduto» che raccoglie luoghi e persone. L' opera letteraria salda un debito. Espia, in un certo senso, un tempo in cui la verità della sensazione non era stata riconosciuta, e dà voce a una percezione che sul momento non aveva potuto incarnarsi in un' espressione. Ma esistono descrizioni del paesaggio che non siano preteritive? L' espressione è sempre in ritardo sull' impressione. Proust lo rivela accentuando lo scarto tra i due momenti. Il presente della sensazione non può essere descritto che al passato. E per giunta questo passato è una finzione: quello che leggiamo è un romanzo. Il supremo miraggio letterario consiste nel rendere credibile il gesto che ricattura, nel far credere che lo scrittore non sia interamente passato accanto alla vita, e alla verità. Proust non è stato il primo né il solo a sperimentare il «disaccordo» tra ciò che si offre allo sguardo e ciò che il linguaggio è in grado di dire. La distanza è troppo grande, la bellezza troppo inafferrabile, e lo spirito, per quanto faccia esso stesso parte di quel mondo che lo incanta, sente di non avere la forza di registrarlo e di fissarlo. Nella sua Histoire des artistes vivants, Théophile Silvestre riporta un' affermazione di Corot che esprime questa delusione con forza e semplicità: «Quando mi trovo in mezzo alla natura, provo rabbia verso i miei quadri». La retorica dell' ineffabile, il ricorso sistematico ai prefissi negativi degli epiteti (inesprimibile, indicibile, inaudito...) appartiene sia alla teologia negativa sia al vocabolario che celebra la bellezza del mondo dichiarandola fuori portata per i nostri mezzi espressivi. Questo vocabolario ha l' evidente effetto di segnalare un limite: designa l' ostacolo che ci vieta di metterci sullo stesso piano dell' essere che si manifesta a noi nella sua magnificenza o nella sua estrema delicatezza. Ha la funzione di segnalare che ci sentiamo votati allo scacco perché siamo sensibili a ciò che ci eccede. Ma ricorrendo al prefisso di negazione, che umilia il linguaggio, il nostro spirito si attribuisce implicitamente il potere di riconoscere l' insuperabile, e in tal modo di superarlo. «Saper salutare la bellezza», secondo l' espressione di Rimbaud, significa saper conservare nelle parole stesse il silenzio che ci è imposto da quanto va al di là della nostra esistenza. La descrizione del paesaggio è una delle occasioni in cui la parola letteraria può fare l' esperienza del proprio limite e allo stesso tempo elevarsi fino al «sublime». In Proust, il grido di dispetto è un momento preliminare, che si apre verso il futuro. Ma Proust conosce anche, come molti altri artisti, un grido finale: quello del Marsia scorticato che si intravede in secondo piano in una delle più belle scene pastorali di Claude Lorrain. Ricordiamo l' ultima frase del poema in prosa intitolato Il confiteor dell' artista: «Lo studio della bellezza è un duello in cui l' artista grida di sgomento, prima di essere vinto». Baudelaire introduce, in un poema in prosa, ovvero nell' opera d' arte stessa, il grido che confessa la disfatta dell' arte. È la versione moderna di ciò che, al di là dell' ineffabile, ritrova l' infandum: l' impronunciabile perché sacro. Jean Starobinski, da Le parole per raccontare la bellezza del mondo, traduzione di Monica Fiorini in Lettera internazionale n.105

lunedì 8 novembre 2010

Dediche

C' è qualcosa di nuovo, oggi, nella letteratura italiana. Qualcosa che prima non c' era: la gratitudine. Gli antichi erano ingrati. C' era in passato, come oggi, chi preparava i brodini agli autori, chi gli lavava i calzini e gli dava il bacio della buonanotte; ma loro, niente! Quando pubblicavano un libro, che so: le Ultime lettere di Jacopo Ortis, o I promessi sposi, non mettevano nemmeno una parola di ringraziamento. Qualche volta, il tipografo metteva di sua iniziativa la parola fine, e tutto finiva lì. Oggi è diverso. Oggi non c' è quasi esordiente, o recidivo delle patrie lettere, che non aggiunga alle eterne pagine del suo libro una mezza pagina, o una pagina, o anche due pagine fitte di ringraziamenti. A Gianna, a Pasquale, a Bibi; a Sara che quando mi vedeva pensieroso mi guardava un po' così; a Giuliano per i preziosi consigli. A Giusi (o: a Sandro) che mi incoraggiava. A Piero che mi preparava il cappuccino tutte le mattine. A Iole, la sua mano fresca sulla mia fronte. La lettura dei ringraziamenti è spessa più dilettevole, e istruttiva, di quella del libro. Purché non sia reticente. Vogliamo fare un esempio? «A Giovanni (o: a Clara), lui (lei) sa il perché». Eh no. Vogliamo saperlo anche noi che leggiamo, il perché. Ne abbiamo il diritto.
Sebastiano Vassalli

giovedì 4 novembre 2010

La Morte

Un giorno il Califfo manda il suo Visir a sentire cosa dice gente al bazar. Quello va e nella folla nota una donna magra, alta, avvolta in un gran mantello nero, che lo guarda fisso. Terrorizzato, il Visir scappa via. Corre dal Califfo e lo implora:
“Sire, aiutami! Al bazar ho visto la Morte. E’ venuta per me. Lasciami partire ti prego. Dammi il tuo migliore cavallo. Con quello, a tappe forzate, stasera sarò in salvo a Samarcanda”.
Il Califfo acconsente e fa portare il suo cavallo più veloce. il Visir balza in sella e galoppa via a spron battuto.
Incuriosito il Califfo va lui stesso al mercato. Nella folla vede la donna dal gran mantello nero e l’avvicina.
“Perché hai fatto paura al mio Visir?” le chiede.
“Non gli ho neppure parlato”, risponde la Morte. “Ero solo sorpresa di vederlo qui, perché il nostro appuntamento è stasera a Samarcanda.
fiaba indiana raccontata da Tiziano Terzani in Un altro giro di giostra

La pioggia

La pioggia scompiglia i pensieri che corrono come gocce sui vetri.

lunedì 1 novembre 2010

La parola e la mola

Non era che una reverie. Fantasticavo che i metafisici, quando si fabbricano un linguaggio, somigliano agli artigiani che, invece di coltelli e forbici, passassero sulla loro mola medaglie e monete, per cancellarne l’esergo, l’annata, l’effigie. Quando hanno tanto fatto che non si vede più sulle loro monete da cento soldi né Vittoria, né Guglielmo, né la Repubblica, dicono: ‘Queste monete non hanno nulla di inglese, né di tedesco, né di francese; le abbiamo tratte fuori dal tempo e dallo spazio; esse non valgono più cinque franchi: esse hanno un valore inestimabile e il loro corso è stato esteso infinitamente’. Essi hanno ragione a parlare così. Con questo lavoro da pochi soldi le parole vengono portate dal fisico al metafisico. Si vede innanzitutto cosa ci perdono; non si vede subito cosa guadagnano. (...) In tre pagine di Hegel, prese a caso dalla sua Fenomenologia, su ventisei parole, soggetti di frasi importanti, ho trovato diciannove termini negativi contro sette termini affermativi. Gli ab, gli in, i non agiscono ancora più energicamente della mola. Vi cancellano d’un colpo solo le parole più salienti. Talvolta, a dire il vero, ve le capovolgono soltanto, e ve le mettono sottosopra.
Anatole France, Le jardin d'Epicure