martedì 16 aprile 2013

Sapere è un verbo all’infinito


“Scrivere un libro sul sapere a partire dalla nostra esperienza è stata una specie di necessità, nata da una profonda insofferenza. Insofferenza verso un’idea convenzionale di sapere che ignora le relazioni e le comunanze tra i suoi vari campi, e si trincera dietro codici e discipline. “Ah, ma anche i pedagogisti fanno ricerca?”, “Ma tu sei architetto o ingegnere?”, “Se sei musicista perché hai studiato anche filosofia?”, amenità che rivelano schemi precostituiti e ben consolidati nel nostro contesto culturale.” 
“Il primo passo per eseguire correttamente la musica da camera è imparare a non mettersi in luce, a tirarsi indietro. L’insieme non si realizza con l’autoaffermazione imperioso delle singole parti che produrrebbe un barbarico caos, ma riflettendo su se stessi e ponendosi dei limiti.” 
“Tutti erano impegnati intorno all’unica opera: i falegnami dediti a costruire le impalcature e a preparare le travi a capriate per sorreggere il tetto; i fornaciai impegnati nella cottura dei mattoni; i manovali per la preparazione delle malte; i tagliapietre a scegliere le pietre più adatte; i costruttori di macchinari, i fabbri, gli scalpellini...”. 
“Entrare in dialogo con gli studenti e facilitare il confronto tra loro significa porre le premesse perché non rimangano quello che sono ma diventino quello che possono diventare.”
Le quattro citazioni appartengono al libro Sapere è un verbo all’infinito di Anna, Chiara, Elena Granata (ed. Il Margine). Anna è psicologa e insegna Pedagogia generale interculturale all’Università di Torino, Chiara è dottore in filosofia e arpista, Elena architetto e docente di Analisi della città e del territorio  e Geografia urbana presso il Politecnico di Milano. Tre sorelle che hanno deciso di attraversare  i territori dei loro saperi dando vita a una mappa sorprendente. Saliamo sui ponteggi delle cattedrali medievali e scopriamo che i committenti di quei cantieri, vescovi o presbiteri, sono anche i promotori delle Università. La faccia di Samuel Beckett descritta da Tullio Pericoli è il punto di partenza per le  analogie fra volto e paesaggio. La straordinaria esperienza dei tribunali post apartheid in Sudafrica racconta come la riconciliazione fra carnefici e vittime sia possibile. Negli ospitali di Venezia e Napoli, nel Settecento, gli ultimi diventano musicisti di talento. A Urbino scuola e città scambiano le loro strade e rappresentano un esperimento unico. Pilpul è il termine onomatopeico che nella formazione rabbinica indica la capacità di spaccare il capello in quattro: dissentire è considerato un fattore positivo non un ostacolo. Nel libro le scene che si aprono sono infinite: dal laboratorio di chimica di Primo Levi alla cattedrale di Gaudì, alla rete di orchestre del Venezuela, a Filippo Brunelleschi che mostra ai suoi committenti come sta dritto un uovo sopra un tavolo, a Marguerite Yourcenar e Hannah Arendt mentre scrivono.
Sapere è un verbo all’infinito, non un potere da gestire o difendere; il sapere è democratico, tutti devono avere la possibilità di studiare e conoscere; il sapere è coraggioso, oltrepassa le frontiere;  il sapere è una relazione, un sorriso, una passione, un’idea una domanda inattese; a volte il sapere è, per dirla con le parole di Anna, Chiara, Elena, “la sovrabbondante generosità della vita che c'insegna qualcosa che non sta nei libri”.

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