venerdì 1 agosto 2008

Accadde a Cortina di Goffredo Parise

ACCADDE A CORTINA
di Goffredo Parise
In una pubblicità televisiva appaiono alcune sequenze di sciatori in neve fresca: non so dove. Appaiono e scompaiono perché l’immagine dura molto poco, quanto basta per darmi ogni volta un’emozione molto forte, come di innamoramento, che mi fa bere quelle immagini così come si beve, cercando di possederne sempre il mistero, il volto della persona amata. È quello che io chiamo il mio amore per lo sci. Non è l’amore per la tecnica dello sci, né in particolare per la montagna, che infatti amo solo d’inverno, quando è coperta di neve, ma qualche cosa di molto più semplice e di molto più complesso che potrei impropriamente chiamare solitudine.
Mi piace molto sciare da solo, anche se è sconsigliato e non è raccomandabile mai, specie se fuori pista e in luoghi dove nessuno può soccorrerti nel caso anche di un minimo incidente. Sciare fuori pista, in neve fresca, tra i boschi e dove non si incontra gente può essere infatti molto pericoloso. Ma in quei momenti non importa. Basta una sciocchezza a un attacco, un minimo particolare tecnico che non funziona e si può rischiare di passare la notte al gelo, di essere introvabili, di morire. Non importa. Non posso dire dunque che il mio amore per lo sci è amore del rischio, ma appunto amore di qualche ora di solitudine e di bellezza.
Sopravvive naturalmente qualche cosa di infantile nel mio amore per lo sci, qualche cosa che non è mai stato appagato perché quando cominciai a sciare io, nell’inverno del 1945, nonostante l’età (avevo quindici anni) e l’entusiasmo un po’ canino che si ha a quell’età, la giornata di sci pura e intensa, senza mai fermarsi, non era mai veramente appagata.
Si finiva alla sera, di solito la sera della domenica, per tornare a casa con i mezzi di fortuna di allora, esausti, felici anche, ma mai veramente appagati. C’era sempre qualche cosa di inappagato: non essere riusciti a imparare abbastanza bene a curvare, un "cristiania" che non era riuscito a diventare parallelo, le brevi discese, sempre troppo brevi, la mancanza di impianti e in generale il sogno (anche quello inappagato) di sciare veramente bene. Per un certo numero di anni smisi di sciare e ricominciai molto più tardi all’età di trentacinque. Mi resi conto che si doveva rifare tutto daccapo. E lo feci, con l’umiltà e la passione di quello scolaro (rarissimo) che ama la cultura per la cultura.
Accadde, come si dice, a Cortina. Per molte stagioni presi una casa in affitto e mi trasferivo lì per tutto l’inverno. Con l’aiuto di un maestro, Miccia Alverà, imparai veramente a sciare. Poi con l’aiuto di un altro, una specie di folletto, Mario Lacedelli, imparai a sciare fuori pista e in neve fresca. Raggiunsi in tarda età quello che avevo sognato a quindici anni.
E come sempre quando si raggiunge quello che si è sempre sognato, non si desidera più o non si può più andare avanti. Allora accade quello che è sempre accaduto nell’uomo: il desiderio di trasmettere agli altri non soltanto la propria tecnica, che altro non è che tecnica, ma il senso profondo, intimo e solitario di questa bellezza, l’amore per lo sci diventa l’amore di insegnare quanto è bello lo sci. È l’età. E credo avvenga per molti.
Per quanto mi riguarda negli anni scorsi ho dovuto, con piacere e dispiacere al tempo stesso, ammettere che provavo una gioia molto più grande a vedere imparare qualche mio occasionale allievo che sciare io stesso. "Ormai, quello che è fatto è fatto", mi dicevo per quanto riguardava i miei apprendimenti, la mia personale tecnica o, come è più esatto dire, la mia esperienza. Un po’ come la vita. L’esperienza, cioè gli anni, se dotati di energia a sufficienza, mi avevano dato tutto o quasi tutto sullo sci: la traversata delle Tofane fino al Valon de La Ola, un canalone molto ripido, esposto a nord, di cui non si conoscono mai le condizioni della neve fino al momento in cui si giunge sul posto; il Bus de Tofane, appunto un buco che attraversa la punta di quella montagna, in cui si penetra per scendere poi, a capofitto, è il caso di dirlo, fino al rifugio Dibona; lo Sci Diciotto e la Vallorita sul Faloria, la Armentarola, che ormai è diventata una vera e propria pista, ma anche la Marmolada, il Sestriere, la Thuile, la traversata Plateau Rosa-Zermatt, il Monte Bianco, la Mer de Clace e moltissime altre discese.
L’esperienza, dico, che, purtroppo, si acquista soltanto con l’età, quindi con il trascorrere della vita e che diminuisce, ad ogni esperienza successiva, il bagaglio di esperienze che ci è dato vivere.
Uno dei dati e dei piaceri maggiori dell’esperienza è uscire di casa al mattino e indovinare anzi "combinare" le condizioni atmosferiche nel punto in cui ci si trova e da quelle indovinare le condizioni della neve lassù, dove si è deciso di andare a sciare.
Non è facile, perché il tempo può cambiare e tutto si capovolge ma, se le condizioni rimangono quelle annunciate, si può godere del piacere della qualità della neve che si andrà a raggiungere fin dalla porta di casa. E la qualità della neve è uno, se non il primo, massimo piacere dello sci. Abbastanza raramente si può avere una qualità di neve perfetta, sia in pista, che soprattutto fuori pista. Verso primavera invece si può stare più sicuri.
La neve si è assestata durante tutto l’inverno e con qualche giornata di vento caldo si è "cotta" abbastanza, con il sole durante il giorno e gelate durante le notti ancora fredde.
Allora in marzo o aprile, se il manto nevoso è esposto a sud, già fin dal primo mattino la neve si scioglie al sole di uno, due, tre centimetri. La discesa è per così dire vergine e, con quella qualità di neve, si può sciare dovunque e con molta facilità.
Spesso si incontrano camosci e caprioli in branchi, attratti dalla prima erbetta che spunta dalla neve sciolta: fuggono alla comparsa degli uomini verso tracciati anti valanga che essi solo conoscono.
La neve di primavera è meravigliosa ma la vera, la grande, la sublime, la matematica neve è quella polverosa, microscopica neve a ghiaccioli di pieno inverno, in gennaio. Soffice e così silenziosa che non si ode alcun rumore, appena il respiro degli sci quando il corpo si alza e si abbassa rapidamente per curvare, e lo scricchiolío quando si sta fermi.
La bellezza di questa neve è nutrita dal silenzio e dalla luce: una luce fredda e purissima, radente o a picco, senza ombre, dove il blu del cielo si appoggia al candore delle vette e dei manti, e il sole è un disco bianco e rovente come la bocca di un altoforno nell’infinito.
Allora cominciare a sciare, avendo davanti a sé una lunga discesa immacolata dove nessuno è mai passato, soli, contro il sole, aspirando quel profumo quasi impercettibile che il sole estrae dalla neve, un po’ ozono, un po di iodio, ascoltando i suoni interni dei propri muscoli, del respiro, dello sguardo e soprattutto il suono della propria energia in espansione, allora, e solo allora e per pochi istanti, si può dire e ripetere e ricordare: "Sì, sono e sono stato veramente felice di vivere".

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