"Nel blog l'altro può firmare nel tuo testo, esiste uno spazio per chiunque decida di arrivare"
sabato 30 gennaio 2010
I figli della ruota
A Napoli come in altre città italiane esisteva un luogo dove le madri poverissime abbandonavano i loro figli nella speranza di poterli poi un giorno ritrovare. Era la Reale Santa Casa dell'Annunziata, aperta nel 1300 e chiusa nel 1980. Su lato della strada un tamburo girevole offriva la possibilità di depositare in modo anonimo il neonato altrimenti destinato a morte certa. In genere le mamme legavano al collo del bambino un piccolo sacchetto contenente un santino, una medaglietta, una scarpetta, un rosario, un anello. Piccoli oggetti divisi a metà con la speranza di poterli usare un giorno come simbolo per un riconoscimento. Questi regali spezzati e le cartule, i fogli con il nome e, a volte, altre informazioni su neonato, sono oggi custoditi nei due chilometri di libri e registri dell'Archivio degli Esposti. È qui che ogni anno molte persone cercano le tracce della loro storia di familiare: "Il flusso è continuo - spiega Romualdo Capone direttore dell'Archivio. Ognuno cerca una risposta nella famosa "busta" dentro la quale a volte ci sono un nome e un cognome, ma a volte un semplice e inutile appunto: Carmela, sedici anni, Torre del Greco...L'idea che mi sono fatto , dopo tanti anni, è che alla fine per le persone non sia tanto importante ritrovare un parente quanto fare un percorso dentro di sé."
mercoledì 27 gennaio 2010
La banalità del male
Il male non ha profondità né una dimensione demoniaca. Si diffonde come un fungo, può ricoprire il mondo e devastarlo. È una sfida al pensiero, perché il pensiero vuole andare in fondo, tenta di andare alle radici delle cose, e nel momento che s'interessa al male viene frustrato, perché non c'è nulla. Questa è la sua banalità. Solo il Bene ha profondità.
Hannah Arendt
Hannah Arendt
sabato 23 gennaio 2010
Sussurri e grida
Un giorno, un pensatore indiano fece la seguente domanda ai suoi discepoli:
"Perché le persone gridano quando sono arrabbiate?"
"Gridano perché perdono la calma" rispose uno di loro.
"Ma perché gridare se la persona sta al suo lato?" disse nuovamente il pensatore.
"Bene, gridiamo perché desideriamo che l'altra persona ci ascolti" replicò un altro discepolo. E il maestro tornò a domandare: "Allora non è possibile parlargli a voce bassa?" Varie altre risposte furono date ma nessuna convinse il pensatore.
Allora egli esclamò: "Voi sapete perché si grida contro un'altra persona quando si è arrabbiati? Il fatto è che quando due persone sono arrabbiate i loro cuori si allontanano molto. Per coprire questa distanza bisogna gridare per potersi ascoltare. Quanto più arrabbiati sono tanto più forte dovranno gridare per sentirsi l'uno con l'altro. D'altra parte, che succede quando due persone sono innamorate? Loro non gridano, parlano soavemente. E perché?
Perché i loro cuori sono molto vicini. La distanza tra loro è piccola. A volte sono talmente vicini i loro cuori che neanche parlano, solamente sussurrano. E quando l'amore è più intenso non è necessario nemmeno sussurrare, basta guardarsi. I loro cuori si intendono. E' questo che accade quando due persone che si amano si avvicinano."
Infine il pensatore concluse dicendo: "Quando voi discuterete non lasciate che i vostri cuori si allontanino, non dite parole che li possano distanziare di più, perché arriverà un giorno in cui la distanza sarà tanta che non incontreranno mai più la strada per tornare."
Mahatma Gandhi
"Perché le persone gridano quando sono arrabbiate?"
"Gridano perché perdono la calma" rispose uno di loro.
"Ma perché gridare se la persona sta al suo lato?" disse nuovamente il pensatore.
"Bene, gridiamo perché desideriamo che l'altra persona ci ascolti" replicò un altro discepolo. E il maestro tornò a domandare: "Allora non è possibile parlargli a voce bassa?" Varie altre risposte furono date ma nessuna convinse il pensatore.
Allora egli esclamò: "Voi sapete perché si grida contro un'altra persona quando si è arrabbiati? Il fatto è che quando due persone sono arrabbiate i loro cuori si allontanano molto. Per coprire questa distanza bisogna gridare per potersi ascoltare. Quanto più arrabbiati sono tanto più forte dovranno gridare per sentirsi l'uno con l'altro. D'altra parte, che succede quando due persone sono innamorate? Loro non gridano, parlano soavemente. E perché?
Perché i loro cuori sono molto vicini. La distanza tra loro è piccola. A volte sono talmente vicini i loro cuori che neanche parlano, solamente sussurrano. E quando l'amore è più intenso non è necessario nemmeno sussurrare, basta guardarsi. I loro cuori si intendono. E' questo che accade quando due persone che si amano si avvicinano."
Infine il pensatore concluse dicendo: "Quando voi discuterete non lasciate che i vostri cuori si allontanino, non dite parole che li possano distanziare di più, perché arriverà un giorno in cui la distanza sarà tanta che non incontreranno mai più la strada per tornare."
Mahatma Gandhi
venerdì 22 gennaio 2010
Diario afgano
Ci sono luoghi che non dimenticherai mai perché sanno parlarti attraverso le loro assenze. Donatella oggi ci fatto da guida e ci ha portato lungo il Jaade-ye Maiwand, è la prima cosa di Kabul che i giornalisti e i cinereporter di tutto il mondo vogliono vedere. Una volta era un lungo viale costellato di palazzi. Oggi non resta in piedi un solo edificio a eccezione del Nadir Shah Palace.Siamo rimasti muti a guardare le sue inutili porte spalancate, i tetti sventrati dagli obici sovietici, le facciate crivellate dai proiettili traccianti, i corridoi affacciati nel vuoto, i cavi elettrici recisi che sventolvano nella brezza. Sullo sfondo il maestoso Sher Darwaza coperto di neve
Tramonto aranciogrigio nell’aria tagliata dal vento che profuma di curry e nuvole. Al chek point di Darmasalan a sud di Kabul abbiamo atteso due ore. Da quel che abbiamo capito c’era un problema ai ponti radio dedicati all’unità antiterrorismo dell’Fbi, la banca dati che controlla le generalità di ogni persona in entrata e in uscita dalla capitale. All’ospedale di Emergency abbracci, sorrisi, storie, a volte tragiche. Mi ha colpito Roberto Leoni, chirurgo romano dai modi asciutti e dalla barba dorata. È in sala operatoria 18 ore al giorno, qualche voltà 24 ore al giorno| ma nel suo sguardo c’è una forza straordinaria. Il nostro “hotel” per la notte è una casa costruita con il fango e tavole di legno. Abbiamo mangiato spezzatino di montone e chapati insieme a Donatella Cecchini, una fotografa fiorentina dagli occhi verdi e vivaci, è qui per un reportage sull’istruzione femminile. Non smetteresti mai di ascoltarla mentre parla delle madrasse e delle donne afgane che incontrato. Ogni giorno scopriamo il piacere delle piccole cose, come un pasto caldo, dell’amicizia, di legami che credo dureranno per sempre.
Gli elicotteri ci hanno svegliato all'alba, erano diretti verso nord. Caffè per buttarci alle spalle il sonno e il freddo. Gabrielle si accende una sigaretta, apre il suo taccuino e ci legge un vecchio proverbio arabo:
“Sai camminare sull’acqua? Non hai fatto nulla più di un’inezia. Sai volare nel cielo? Non sei migliore di un moscerino. Conquista il tuo cuore, allora potrai davvero diventare qualcuno”.
“Ma allora non c’era bisogno di venire fin quaggiù, potevamo esercitarci anche a a casa”, scherzo e anche i miei amici sorridono. E si va ancora sulla Route A01. Passeremo, speriamo, i check point di Jalalabad e poi nel pomeriggio faremo sosta a Kabul. Grazie a tutti voi che scrivete e commentate questo viaggio fantastico, un abbraccio e a presto. Mario
Pam,pam, pam, un colpo dietro l’altro, una grandinata di pietre questa mattina ha investito la nostra Land Rover sui tornanti del passo di Selang rompendo il parabrezza e piegando l’antenna del satellitare. I massi più grandi per fortuna sono caduti più a valle. Se ci avessero colpiti ci avrebbero trascinato negli strapiombi. La strada però è rimasta bloccata. Insieme agli autisti di due tir uzbechi che trasportavano carburante abbiamo legato i cavi da traino alle pietre più grandi e le abbiamo allontanate fra loro cercando di creare lo spazio necessario per passare prima che facesse buio. Anche la nostra jeep con il suo paraurti rinforzato ha fatto il suo dovere. Dopo quasi nove ore siamo riusciti a creare un varco e a continuare il nostro viaggio verso Anabah. Da poco siamo fermi alle porte di Jalalabad sulle sponde di un piccolo lago ghiacciato. Giancarlo ha accesso un piccolo falò, ci divertiamo a lanciare i sassi che rimbalzano sulla superficie ghiacciata. Gabrielle canta sottovoce With or without you degli U2 e ogni tanto alza la testa verso le stelle che stanotte sono così vicine che sembra tu possa toccarle. Il termometro segna meno venti e abbiamo fame dopo una giornata durissima. Forse per questo il minestrone liofilizzato e le fette biscottate sembrano la cosa più buona che abbiamo mai mangiato. A volte smettiamo di ridere o di parlare, gli sguardi si perdono lontano, cercano di raggiungere casa, ognuno di noi ne ha lasciata una per essere qui, adesso, per seguire il suo richiamo di un altrove. Sono strani i pensieri che affollano la mente quando scegli di attraversare la solitudine di un luogo così diverso da quelli che hai sempre conosciuto. Impossibile raccontare i tanti pensieri che girano in tondo, in questo momento, in questo viaggio sul filo delle nostre esistenze, nelle fredde stanze di un paese attraversato da battaglie senza verità. Una sola certezza forse abbiamo: dopo questo viaggio non saremo più gli stessi.
giovedì 21 gennaio 2010
Pessimo giornalismo
Gentile Corrdado Augias
gentile redazione di Repubbllica,
trovo finalmente il tempo per scrivervi due righe ed esprimere profonda delusione, offesa, rammarico, per un giornalismo che domenica 17 gennaio non ha esitato - come già accaduto altre volte - a sbattere in prima pagina un minore tra le macerie di Haiti. Guardatela quella foto, cosa ha a che vedere con il diritto di cronaca? È solo la ricerca di un'audience da Gran Guignol, a tutti i costi e alla faccia della Carta di Treviso e altre carte che sono solo carta straccia. Davvero c'è qualche giornalista serio che pensa che avevamo bisogno di quella foto, e altre simili, per comprendere che 100.000 vittime non erano solo pensionati? Non ho altro da dirvi.
- Gentile Mario, si sbaglia - quella foto era bellissima, ricorda un'altra foto celebre di circa 30 anni fa: una bambina ugualmente nuda che correva in vietnam nel fumo dlele bombe - servì contro la guerra
molto cordialmente, Corrado Augias
- Ergo questa serve contro i terremoti?
- Serve a suscitare solidariertà, si spera - non sia così polemico molto cordialmente, Corrado Augias
- Gentile Corrado Augias
La ringrazio per la precisazione e la cortesia ma il dubbio che non sia quella la strada maestra del giornalismo mi rimane. Personalmente avrei scelto un'altra foto tra le migliaia a disposizione, puntare sui più piccoli sia in pubblicità che in cronaca è facile, è come scegliere il nero per essere eleganti.
Molto cordialmente, Mario
P.S.Se la foto fosse stata scattata a L'Aquila l'avreste pubblicata?
gentile redazione di Repubbllica,
trovo finalmente il tempo per scrivervi due righe ed esprimere profonda delusione, offesa, rammarico, per un giornalismo che domenica 17 gennaio non ha esitato - come già accaduto altre volte - a sbattere in prima pagina un minore tra le macerie di Haiti. Guardatela quella foto, cosa ha a che vedere con il diritto di cronaca? È solo la ricerca di un'audience da Gran Guignol, a tutti i costi e alla faccia della Carta di Treviso e altre carte che sono solo carta straccia. Davvero c'è qualche giornalista serio che pensa che avevamo bisogno di quella foto, e altre simili, per comprendere che 100.000 vittime non erano solo pensionati? Non ho altro da dirvi.
- Gentile Mario, si sbaglia - quella foto era bellissima, ricorda un'altra foto celebre di circa 30 anni fa: una bambina ugualmente nuda che correva in vietnam nel fumo dlele bombe - servì contro la guerra
molto cordialmente, Corrado Augias
- Ergo questa serve contro i terremoti?
- Serve a suscitare solidariertà, si spera - non sia così polemico molto cordialmente, Corrado Augias
- Gentile Corrado Augias
La ringrazio per la precisazione e la cortesia ma il dubbio che non sia quella la strada maestra del giornalismo mi rimane. Personalmente avrei scelto un'altra foto tra le migliaia a disposizione, puntare sui più piccoli sia in pubblicità che in cronaca è facile, è come scegliere il nero per essere eleganti.
Molto cordialmente, Mario
P.S.Se la foto fosse stata scattata a L'Aquila l'avreste pubblicata?
martedì 19 gennaio 2010
Diario afgano
Almeno per oggi restiamo qui, ci hanno trasferito in un piccolo villaggio pochi chilometri a sud. In questa terra non ci sono certezze, non ci sono alberi ma i sorrisi degli afgani valgono mille soli e le facce di alcuni vecchi sembrano antichi incunaboli ricchi di ricordi e storie da raccontare. Kamal ci ha mandato a pranzo dalla famiglia di sua sorella Hamida che ha tirato fuori uova e pomodori, le pietanze tenute per le grandi occasioni. Nel pomeriggio abbiamo giocato con un pallone di pezza con una ventina di ragazzini infagottati in panni e piccole coperte dai colori sgargianti, verde, turchese, rosso carminio, viola. La notizia che domani possiamo proseguire lungo la Route A01 è arrivata in serata. Tra poco ci infiliamo nei sacchi a pelo. Non abbiamo parlato della paura che ci afferra e ci lascia. Non accade nulla sotto i nostri occhi, ma la sensazione di vivere sul filo è sempre presente. Giancarlo è un veterano e ci infonde fiducia, Gabrielle è alla sua seconda spedizione in Afghanistan ma è la prima volta che attraversa la valle del Panshir, io mi chiedo se sto facendo la cosa giusta.
Saliamo lungo la pista del passo di Selang, verso quattromila metri e oltre, lungo strapiombi senza fine e nebbie improvvise. Cerco di non guardare alla mia sinistra. Incontriamo ogni tanto dei labashi, le squadre di uomini che lavorano affacciati sullo strapiombo per aggiustare queste strade. Passano intere settimane in quota e dormono all'aperto. Procediamo lentamente, c'è il pericolo di frane e non ci sono protezioni fra noi e il vuoto. Non mi ricordo più chi ha scritto che quando guardi l'abisso e l'abisso che guarda in te.
sabato 16 gennaio 2010
Diario afgano
Non abbiamo alternative fra queste montagne, dobbiamo orientarci fra tracce di sentieri confusi, stati d'animo così diversi, senza sapere mai quello che ci capita. Guardo le cime altissime del Pamir che svettano anche oltre i settemila metri, il vento soffia gelido e segna la pelle del viso, il cielo è limpido e profondo. Mi accompagna in questo viaggio straordinario l’amico d’infanzia Giancarlo Sini di Emergency. Procediamo con cautela su una Land Rover militare lungo la valle del Panshir diretti ad Anabah. Con noi anche Gabrielle Gentili di France Press. Poco prima della mezzanotte una gigantesca mezzaluna illuminava quasi a giorno l’intera vallata, i profili bassi delle abitazioni, le creste delle montagne, i sentieri che si perdono verso i letti asciutti dei torrenti. In lontananza l’impaziente frullio delle pale degli elicotteri e le loro luci come lucciole nervose nel buio. Il cielo è cambiato, le nuvole grigionere sono enormi e ci sfiorano la testa. Un vecchio cartello arrugginito avverte del pericolo mine. Di notte a volte scendono dai loro rifugi nelle rocce e piazzano qualche mina anticarro. Da qui in avanti procediamo a nostro rischio e pericolo. "C'è sempre qualcuno pronto a colpirti alle spalle", dice Giancarlo. Ci accendiamo una sigaretta e si va! Da cinque ore siamo fermi al check point, il tenente Vieri della Task Force North ci ha detto che non si può proseguire perché a Jalalabad ci sono stati dei disordini, i ponti radio con Anabah sono interrotti, il satelittare ha una finestra di due minuti ora. Tra poco sarà l'alba, Giancarlo ha preparato un caffè con un fornelletto a gas, il silenzio intorno a noi è spettrale, il termometro segna meno quindici. Gabrielle continua a scrivere, non so se per paura o per distrarsi dal freddo. Non abbiamo voglia di dormire, l'unica cosa familiare sono i nostri sguardi.
martedì 12 gennaio 2010
Ballo
"...Capisco perché il mio modo di ballare è cambiato, perde le figure briose e sfidanti e si riduce ad un forte abbraccio sotto il quale i piedi si intrecciano in movimenti appena accennati. Quell'abbraccio di tre minuti mi salva la vita, sento il mio corpo in un altro corpo, trovo la mia forma nella forma della donna, mi aggrappo ad una persone forse sconosciuta per non perdere quel che resta di me."
Miguel Angel Garcia, Il maestro di tango
Miguel Angel Garcia, Il maestro di tango
venerdì 1 gennaio 2010
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