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“Caro Rumiz, ma questo mondo si salverà?”. La domanda non avrebbe nulla di strano se a porla non fosse lo stesso Paolo Rumiz che, come Glenn Gould, ha intervistato sé stesso, lunedì scorso a Trieste, in una giornata di nuvole, sole e vento, sotto un tendone montato in piazza Borsa per il Premio Luchetta (main sponsor Fincantieri). La sua voce gioca sui registri bassi, come dopo una notte passata al freddo, e procede lenta, come un treno di seconda classe.
“Caro Rumiz, ma questo mondo si salverà?”. La domanda non avrebbe nulla di strano se a porla non fosse lo stesso Paolo Rumiz che, come Glenn Gould, ha intervistato sé stesso, lunedì scorso a Trieste, in una giornata di nuvole, sole e vento, sotto un tendone montato in piazza Borsa per il Premio Luchetta (main sponsor Fincantieri). La sua voce gioca sui registri bassi, come dopo una notte passata al freddo, e procede lenta, come un treno di seconda classe.
“Sono un figlio della notte in cui è stata costruita
la frontiera, sono nato a Trieste la notte del 20 dicembre 1947, quando i graniciari
jugoslavi con una
bottiglia di Slivovitz in tasca e i soldati americani con una King Size tra le
dita hanno spensieratamente tracciato questa frontiera intorno alla mia città.
Per tutta la vita ho lottato per abbatterla.
Dopo sessant’anni quel momento è arrivato con
l’ingresso della Slovenia nella Ue. Nel 2007 decisi di festeggiare il mio
sessantesimo compleanno in un’osteria alla fine della rocciosa Val Rosandra, a
dieci metri dalla sbarra bianca rossa e blu dell’ex Jugoslavia. A mezzanotte
gli amici sloveni dei villaggi
dell’altra parte, Beka, Cisla...sono scesi attraverso
la foresta con le loro lampadine frontali per brindare insieme, contenti
di entrare definitivamente in Europa dopo essere usciti dal dramma della
dissoluzione jugoslava. Abbiamo tagliato a fette la sbarra e ce la siamo divisa
come un souvenir, come fossero delle particole. In quel momento un amico,
l’attore Moni Ovadia, mi ha fatto una domanda: E adesso vecio come te farà
senza questo tuo confin?
Mi mancava qualcosa, quella frontiera garantiva che
quelli che dell’altra parte restassero diversi da me. Che me ne importa che gli sloveni e i croati mi somiglino, io voglio che siano diversi,
altrimenti non ha senso viaggiare, viaggio per incontrare quelli che sono
differenti dalla mia cultura. Quella
frontiera è stata un grande invito al viaggio, il fatto che ci
fosse mi dava quel prurito necessario a sorpassarla, a andarci oltre; la
provocazione, il desiderio di infrangere una regola, questo effettivamente mi mancava... mi troverete morto tra
qualche anno su un treno di seconda classe tra Bulgaria e Romania...
Ricordo che da bambino ascoltavo la radio della
nonna, che chiamavamo cheba, giravo la manopola e sentivo le voci di quest’altro mondo,
Radio Budapest, Radio Praga...la frontiera da una parte chiude, dall’altra
dischiude mondi diversi. Dopo quell’insolito compleanno, sentii il bisogno di
attraversare le frontiere di una volta, quelle con i visti e le lunghe attese
per i controlli. Iniziai un viaggio a zig zag, come i punti di sutura di una
ferita, di una cicatrice, da nord a sud. La parte più interessante dell’Europa
stava fuori dall’Europa dei ricchi, il cuore era dall’altra parte, nei paesi del
grande freddo. Ogni volta che rientravo in Finlandia, in Polonia, in Ungheria,
avevo meno cose da scrivere, il rapporto umano con le persone diminuiva,
entravo in un mondo in cui c’era più fretta e meno umanità nei confronti del
forestiero che arrivava”.
Ma allora, signor Rumiz, lei è contento che l’Austria
costruisca un muro al Brennero?
“Comincio da un incontro. Pochi giorni fa, invitato
dal sindaco di Trieste Cosolini, ho partecipato a un pranzo a Palazzo Revotella, insieme al sindaco
socialista di Vienna Michael Häupl. Gli ho chiesto qual era il segreto per
governare una città così plurale come Vienna, che ha assorbito in termini
percentuali più immigrati di qualsiasi altra città europea - se guardate
l’elenco telefonico è ancora più incasinato di quello di Trieste in quanto a
origini e paesi rappresentati. Lui mi ha risposto: Es ist einfach, Humanität
und Ordnung (È
semplice, umanità e ordine). Ha poi aggiunto che queste due parole vanno
declinate insieme, ciò che i suoi amici socialisti europei non sanno fare
perché credono che basti l’umanità. Prima di criticare l’Austria dovremmo
aspettare che sia passata questa tornata elettorale, perché i comportamenti
sono influenzati dal fatto che si va a un voto: i partiti tradizionali
preoccupati dall’avanzata dalle destre compiono gesti simbolici per paura di
perdere voti. L’Austria e la
Germania sono state meno brave di noi nel far entrare la gente, ma sicuramente
piu brave nell’integrarla. Il mondo di lingua tedesca è l’unico che ha i mezzi
e la cultura necessari per vincere una sfida del genere.
Il successo dei populismi è il segno di una politica
che non sa dare risposte a un atteggiamento nei confronti dello straniero che è
profondamente mutato in questi anni. Nel 1991 la popolazione di Brindisi si è
fatta in quattro per accogliere i migliaia di profughi albanesi arrivati a
bordo di una grande nave mercantile. Nel giugno del 2015, dopo ventiquattro
anni, sono tornato a Brindisi e l’ho trovata invasa da scritte razziste.
Quando negli anni Settanta furono trovati in Val
Rosandra i corpi congelati di quattro ragazzi del Camerun, ranicchiati di fronte a un piccolo
casello della vecchia ferrovia, ci fu un’ondata commozione e ancora oggi nel
cimitero di San Giuseppe della Chiusa non manca un fiore sulle loro tombe.
Alcuni giorni fa, fermo a un semaforo, vedo una famiglia di esuli, probabilmente siriani, che attraversano sulle
strisce. Un giovinastro in compagnia della sua fidanzata abbassa il finestrino
e grida: Stronzi no gavè capi che non ve vol nisuni. L’ho raggiunto al semaforo successivo e ho detto alla
sua fidanzata: La ghe disi al suo omo ch’el preghi de non aver mai una
guerra in casa.
Mi sono venuti in mente tutti gli esuli passati per
Trieste. Gli istriani erano considerati fascisti solo perché cacciati da un paese comunista; quando arrivarono i bosniaci un noto politico
disse che tornavano a Canossa i nipotini degli infoibatori. Quello che mi è
sempre più chiaro è che il film che vedo ripetersi dagli anni Cinquanata è
sempre lo stesso: la cacciata di evoluti per mano di primitivi bene armati che,
nascondendosi dietro l’alibi, l’usbergo della religione, della patria, del
partito, trovano l’occasione per rubare, struprare, cacciare, impadronirsi dei
beni altrui. Pensateci bene, oggi non scappano i poveri, oggi scappano quelli
che avevano costruito o che si battevano per un paese laico.”
Signor Rumiz, perché è cambiato il nostro
atteggiamento nei loro confronti, perché abbiamo paura di accoglierli?
“C’è la
crisi economica, abbiamo delle guerre alle porte e dei terroristi organizzati
che potrebbero sbarcare su qualsiasi spiaggia italiana, e soprattutto una
politica che non dà risposte alle paure della gente: fa spallucce o manda gli immigrati
nelle periferie, nei ghetti delle nostre città, trasformando il
problema etnico-religioso in
problema sociale, un mix tremendo. Il
problema è che questa politica, che si nutre di talk show e non cammina,
non si impolvera le scarpe nelle nostre periferie, dà risposte di tipo cosmetico o di tipo anestetico. E poi c’è
questa invasione di protesi elettroniche che ci impedisce di comunicare: siamo
il popolo che più di qualsiasi altro in Europa cammina curvo sul proprio
telefonino; abbiamo smesso di relazionarci con gli altri. Penso che abbiamo
urgente bisogno di guardare negli
occhi non solo lo straniero ma anche il vicino di casa."
Caro Rumiz, ma questo mondo si salverà?
“Non lo so, ma mi lasci dire una cosa. Molto spesso
noi diamo delle risposte settoriali, rispondiamo alla crisi finanziaria con
delle formule economiche, rispondiamo al riscaldamento climatico con
considerazioni di tipo scientifico,
rispondiamo all’eplodere della guerra dei Balcani con considerazioni di
tipo etnico. Non comprendiamo che in realtà questi fenomeni sono collegati alla
fine delle risorse naturali, siamo di fronte a orde di predatori che vogliono
impossessarsi di quel che rimane.
Ci manca la capacità visionaria di collegare insieme
le cose e dobbiamo recuperare
urgentemente il senso del limite, non è un caso che la parola frontiera in
latino si traduca con limes. La retorica del mondo senza frontiere unita alla retorica
della crescita del Pil, rappresentano una truffa colossale: non può esserci
economia senza ecologia.”
Rumiz, per caso ci stiamo balcanizzando?
"Sì. Può accadere che una minoranza riesca a far saltare in aria un paese
dove la maggioranza della popolazione ha
buone intenzioni. Quando vidi la marcia della pace a Sarajevo,
quell’energia civica, quella passione, mi illusi che la guerra potesse nascere
ovunque tranne li. Invece è bastato un cecchino appostato su un tetto per
seminare il panico, per provocare il disordine nel quale immediatamente i lupi, gli sciacalli
si sono tuffati per dare il via libera al
brigantaggio santificato dalla croaticità, dalla serbità. Ci stiamo
balcanizzando non nel senso che ci inseguiremo per i quartieri di Trieste con il kalashnikov, ma nel senso che
anche noi cominciamo a nutrire la stolta illusione di vivere meglio nel nostro splendido
isolamento piuttosto che in un
piccolo impero di paesi diversi tenuti insieme alla meno peggio da un potere
debole.”
Un’ultima domanda Rumiz, siamo in guerra?
"Nella mia orazione Come cavalli che dormono in
piedi sostengo che
lo siamo dal 1914, è allora che tutto cambia, la guerra diventa parte
integrante dell’economia. Al Museo della guerra Diego de Henriquez di Trieste,
è esposta una cucina da campo austroungarica che somiglia a una piccola
locomotiva e che “sputava” carne cucinata: i soldati l’avevano ribattezza Gulaschkanone. Avevano colto il nesso che c’era
fra la carne da cannone che veniva mandata a morire in trincea e la carne di
manzo importata in grandi quantità dall’Argentina per rifornire le truppe.
Anche quando crediamo di non combattere siamo parte di un meccanismo bellico
che ci coinvolge tutti. Quindi quando ci troviamo di fronte a questi poveracci che attraversano la strada dovremmo ringraziarli, perché
ci tirano per la giacca ricordandoci che quella è la realtà di gran parte del
mondo, e che l’Europa è un’oasi miracolosa alla quale non c’è nessuna
possibilità di alternativa.”
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