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“Oggi ho fatto scena muta” è il titolo di un articolo di Mauro Covacich apparso qualche settimana fa sull’inserto La Lettura del Corriere della Sera. Lo scrittore racconta di una giornata trascorsa senza scambiare una parola con nessuno, né in palestra, né al supermercato, né in treno, né a una conferenza . Solo la sera, mentre torna a casa, un barbone gli grida “Signore, un euro prego”, e allora finalmente risponde e la sua voce gli pare “un sasso scagliato contro un vetro nel silenzio della strada”.
“Oggi ho fatto scena muta” è il titolo di un articolo di Mauro Covacich apparso qualche settimana fa sull’inserto La Lettura del Corriere della Sera. Lo scrittore racconta di una giornata trascorsa senza scambiare una parola con nessuno, né in palestra, né al supermercato, né in treno, né a una conferenza . Solo la sera, mentre torna a casa, un barbone gli grida “Signore, un euro prego”, e allora finalmente risponde e la sua voce gli pare “un sasso scagliato contro un vetro nel silenzio della strada”.
Per Covacich: “La vita non è mai qui, non è mai ora.
Dislocata, differita, lontana nello spazio e nel tempo dal punto in cui ci si trova a
respirare, è una vita vissuta sempre altrove (...) parlare, nel senso di
rivolgersi la parola non è più necessario. Era necessario quando eravamo
vincolati dalla presenza e ne
rispondevamo con la nostra faccia, col nostro corpo. Ora che la presenza è solo
apparente, o meglio vicaria, posso scambiarmi messaggi con più persone e
condurre più vite nello stesso tempo, sempre in attesa del momento apicale
della giornata (o della settimana), quando cioè finalmente vivrò in carne ed
ossa nel luogo e nell’attimo in cui respiro.”
Non rivolgere la parola agli altri chini sugli schermi di smartphone, tablet, notebook, rimane (per me) una scelta, non qualcosa di
necessario o non necessario. In treno o in qualsiasi situazione “alterata”
dall’immersione virtuale dei nostri interlocutori in Facebook, Instagram,
Whatsapp...possiamo decidere se proporre una domanda, un inizio di
conversazione. Del resto accade anche con i libri. Quante volte abbiamo fatto
finta di leggere con attenzione un libro o un giornale per evitare un vicino o una vicina poco interessanti? In altre occasioni, invece, abbiamo alzato lo sguardo per inserirci in un dialogo che ci pareva stimolante o che ci dava modo di rinfrescare una lingua straniera
che da tempo non praticavamo. Bastano uno sguardo, un sorriso, un
po’ d’attenzione e un pizzico di sensibilità per non fare scena muta. Ma la
riflessione di Covacich aiuta ad esaminare il grande acquario delle connessioni
virtuali, diventato un luogo dell’anima, del pensiero, della memoria.
Quello che non accadeva ai tempi dei libri e dei giornali,
è che oggi pur conversando con te le persone sono
contemporaneamente anche in un luogo, diverso da quello dove stanno respirando,
per riprendere la definizione di Covacich. Sono nell’acquario dei social
anche se non schiacciano il tasto home, quello che illumina lo schermo, quello
che consente di tuffarsi nella bolla di internet: il cervello cade
come un sasso nello stagno luminoso.
Succede così che famiglie e compagnie di amici pur essendo
insieme nello stesso luogo siano contemporaneamente altrove. Il problema non è
che fanno scena muta, è che la
conversazione fluttua fra un tuffo nell’acquario, nello stagno del touchscreen,
e un tuffo nell’aria che circonda il display: ti rispondo mentre do un’occhiata
a Facebook o alle mail, parlo a telefono e sbircio le notifiche di whatsapp, ti
ascolto e appena sento il cellulare che vibra penso sia ..., scrollo le news,
ascolto musica con gli auricolari e mando un sms a... Oppure attacco skype o il
vivavoce a cena, a pranzo, durante l’aperitivo. Mi annoio al cinema, in
macchina, a una festa, mentre attendo qualcosa, qualcuno, un tuffo nello
schermo e splash.
E nell’acquario incontro davvero di tutto, da chi racconta
della morte di un parente all’anniversario di matrimonio di un amico, che per
l’occasione posta le foto in bianco e nero della cerimonia alla quale tanti
anni fa, quando non c’era l’acquario, partecipai anch’io. Poi la sera
l’amico mi chiama per chiedermi se posso prestargli un libro di cui avevamo
parlato, e io gli dico: “Sai ho visto le foto dell’anniversario in faccialibro,
neanche tu riesci a stare fuori dall’acquario”. Lui risponde: “Ti sembra che io
ci sia, in realtà sono dall’altra parte del vetro”.
Vero, i nostri occhi sono sempre dall’altra parte del
vetro, quella che è finita per sempre oltre il vetro è una parte della nostra
anima (se l’anima è anche memoria come sostiene Ferraris in Anima e Ipad). La stessa che Narciso vedeva specchiata
nell’acqua e non riconosceva come sua.
Foto di Marco Rizzo, www.underwatercity.it
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