Si cominciò a servir loro degli uccelli con la salsa verde, in piatti d’argilla rossa, adorni di disegni neri, in tutte le specie di conchiglie che si raccolgono sulle coste puniche, poi delle zuppe di frumento , di fave e di orzo, , e delle lumache al cimino su piatti di ambra gialla.
Poi le mense furono coperte di carni: antilopi con le loro corna, pavoni con le loro penne, montoni interi cotti al vino dolce, cosce di camelli e di bufali, ricci di mare, cicale fritte e ghiri confettati: nelle gamelle di legno di Tamrapanni galleggiavano, in mezzo allo zafferano, dei grossi pezzi di grasso. Era dappertutto un’invasione di salamoia, di odor di tartufi e di assa fetida.
Le piramidi di frutti precipitavano sui pasticci di miele, e non mancavano neppure alcuni di quei cagnolini dal grosso ventre e dal pelo roseo che venivano ingrassati con le fecce delle olive, e rappresentavano uno dei cibi prelibati pei cartaginesi, ma detestati dagli altri popoli. La sorpresa delle vivande nuove eccitava la cupidigia degli stomachi.
I Galli, dai lunghi capegli rialzati sulla sommità della testa, si strappavano i cocomeri e i limoni, che divoravano con la scorza. Dei negri, che non avevano mai visto delle aliuste si graffiavano il volto con le loro zampe rosse. Ma i Greci sbarbati, più bianchi del marmo, si gettavano dietro le spalle gli avanzi dei loro piatti, mentre dei pastori del Brutium, vestiti di pelli di lupi, divoravano silenziosamente, con la faccia quasi affondata nella loro porzione.
La notte cadeva. Si tolse il velario disteso sul viale dei cipressi e si portarono delle fiaccole. Le fiamme vacillanti del petrolio che bruciava nei vasi di porfido, spaventarono, sull’alto dei cedri, le scimmie sacre alla luna.
Gustave Flaubert, Salammbô, traduzione di Aristide Polastri