domenica 4 settembre 2011

Diario marocchino - Essaouira





La strada per Essaouira corre in parte lungo la costa. Dopo una breve sosta per visitare la cisterna portoghese di El Jadida, attraversiamo anonimi villaggi. Prima di Safi s’incontrano gli impianti di un’enorme raffineria, cupe architetture di tubi fumanti sprofondano nella sabbia e nel mare. Vengono alla mente Marghera, Priolo, Taranto, La Spezia e le vite di migliaia di schiavi. Gli ultimi cento chilometri offrono splendide viste sull’Atlantico che piroetta a volte su maestosi scogli, altre su interminabili spiagge; lungo la strada un piccolo villaggio di pescatori e una moschea in riva al mare. L’appartamento ha una vetrata che si affaccia su un grande giardino, lungo il muro di cinta i ragazzini si rincorrono e giocano a pallone, alle volte passa un dromedario con un carico di legna, i poveri la mattina razzolano tra i rifiuti. La povertà non ha riti diversi dai nostri. Il nostro padrone di casa si chiama Rafi, ricorda Little John, il fedele amico di Robin Hood, al nostro arrivo ci ha accompagnato al supermercato a fare la spesa e il giorno dopo ci ha offerto la Harira e i dolcetti al miele. In Marocco, e probabilmente in altri paesi del mondo arabo, s’incontra a prima vista un calore e un’umanità che noi abbiamo perso. A Essaouira, una volta il suo nome era Mogador, si cammina su una spiaggia di dune verso un castello di scogli che la marea raggiunge in pochi minuti, gli alisei soffiano forte e catturano le voci che non raggiungono chi ti precede anche di pochi metri; la sabbia, come fa la neve trasportata dal vento, si dissolve in piccoli atomi che punzecchiano e tambureggiano le gambe e il volto. Due donne vestite di nero entrano in acqua e sembra che l’oceano se le porti via. Al tramonto le torri portoghesi sono una silhouette nera avvolta in una nube di gabbiani su sfondo arancio. La sera ci si tuffa nei colori e negli odori della medina. In un vicolo nascosto da un altro vicolo ci s’imbatte nella bottega di Youssef l’herboriste, una bottega diversa da tutte le altre: profumata, simmetrica, rilassante. All’ingresso centinaia di piante compongono un arazzo, un quadro dell’Arcimboldo, una geometria della natura. L’interno è un corridoio stretto fiancheggiato dai vasi di vetro schierati sugli scaffali: contengono spezie, profumi ed erbe che curano ogni male: cumino, zafferano, rabarbaro, menta, ortica, ginseng, zenzero, timo, fiori d’arancio, origano. Per terra i gusci d’argan e le macine per produrre l’olio di bellezza usato dalle donne berbere. Youssef è un elegante signore di mezza età, le sue jallaba hanno colori e ricami raffinati. Barba curata e naso pronunciato, esprime cultura e senso d’armonia, parla un ottimo francese e, cosa strana, non ha l’insistenza del venditore, anzi se è stanco o indaffarato ringrazia per la visita e da appuntamento per un altro giorno, per un altro momento. Forse Youssef è ebreo. Da piccolo accompagnava il nonno a scegliere le piante e lo aiutava ad essiccare le foglie e i fiori. Ogni vaso del suo atelier è una risposta e per ogni problema Youssef ha pronta la storia di un albero, di un petalo, di un seme, di una tisana, di un impacco, di una goccia miracolosa. L’importante non è il rimedio ma essere convinti che un rimedio ci sia. La medina è un labirinto percorrendo il quale alcune vie sembrano simili alle altre, dove le persone di una via del labirinto non conoscono a volte quelle di altre vie che distano solo qualche centinaio di metri, ma conoscono le diverse porte (bab) che permettono di uscire dal labirinto, Bab Boujeloud, Jdid, Rsif, nomi che cerchi di fissare nella mente ma che spesso non ricordi perché non sono la tua lingua, non appartengono alla tua strada. La vita è un continuo cercare delle porte, un passare nel labirinto: dalla porta della vita si entra, dalla porta della morte si esce. Quello che si ripete nella medina è l’esposizione infinita di cose e cibi, si moltiplica l’immagine degli oggetti che compongono la realtà, una scrittura per figure, un controcanto alla pittura non figurativa degli edifici religiosi, spartiti sovrapposti di facce e forme che raccontano il non religioso. Le immagini - bandite dalle moschee - che accettano solo motivi astratti o versi del corano che diventano ornamento - trionfano per le vie e le botteghe, veri e propri tableau vivant del mondo arabo.
Nei giorni di sereno si torna ad aspettare il tramonto in spiaggia, si gioca a freesby con degli studenti che aspettano l’ora della ftur e sembra di tornare indietro di trent’anni quando anche tu avevi la loro età. Nell’ora fatidica della ftur può succedere di entrare in una lavanderia a secco e di non vedere nessuno, i quattro ragazzi che la gestiscono sono seduti dietro il bancone e mangiano la Harira; dal nulla compare un bicchiere di the alla menta che non si può rifiutare. Alle volte viene la nostalgia di un buon bicchiere di vino, di un piatto di spaghetti, di tortellini, e dei nostri borghi medievali, dei nostri bei palazzi rinascimentali. Qui l’architettura è quella di una grande periferia, manca di continuità ed estetica, ma nel proporre cubi di mattoni accanto a case con finestre e porte di stile moresco, ruderi e moschee, nella totale dissonanza degli accostamenti, è un’architettura forse più umana e democratica, un po’ come la folla che esce dai voli low cost. Diverse cose ricordano, non so se per un bisogno di sentirsi a casa, e quindi meno estranei al luogo, i paesi del nostro sud: il caos delle architetture, i mercati, gli odori e i colori, la povertà e la trascuratezza, l’accettazione fatalistica della vita. In alcuni luoghi l’architettura non c’è proprio ma c’è qualcosa di più, come nel villaggio di pescatori che si trova a circa cinquanta chilometri da Essaouira in direzione nord, è così piccolo che non si trova nemmeno su Google maps. Cercatelo dal vivo lungo la litoranea, a un certo punto sulla sinistra si vede una piccola strada curvosa sommersa dalla sabbia: corre verso l’Atlantico e verso quattro o cinque case ai piedi di un posto di guardia, un cubo bianco sul quale sventola la stella verde su fondo rosso. Le barche dei pescatori sono blu, alcune arenate sulla sabbia sembrano nuotatori senz’acqua. Il pesce appena pescato, aragoste, gamberi, rombi, orate, è trasportato con dei carretti trainati da piccoli asini che salgono verso la strada. Nelle ore più calde i pescatori si addormentano all’ombra degli scafi. Qui il tempo si è fermato, manca tutto quello a cui siamo abituati: la gente, il bagnino, gli ombrelloni, i gabinetti, le sdraio, la doccia, eppure c’è tutto: il mare, il sole, il vento.

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