martedì 6 settembre 2011

Diario marocchino – Volubilis - Meknes



Si va verso Volubilis passando per Meknes. Lungo la strada vecchie mercedes imbottite di persone, sono i taxi collettivi, partono quando i posti sono al completo e l’autista giudica soddisfacente la ricompensa, pick up con i lati del cassone usati come sedili, motocarri di trent’anni fa e autobus che viaggiano con la portiera aperta per il caldo. Non mancano asini che trainano carretti o che trasportano lentamente i contadini e le loro bisacce. Molte macchine in Marocco non hanno l’aria condizionata, e quindi si trasformano presto in un microonde, mettere il braccio fuori dal finestrino non serve a molto, è come metterlo sotto il getto di un potente fohn. Che si fa allora? Ci si distrae con la musica, si passa sulla faccia la bottiglia di acqua gelata che rapidamente prende temperatura, si bagna un fazzoletto e lo si passa sulla fronte e sul collo. I tassisti di Fes per resistere tutto il giorno circolano con un asciugamano bagnato sulla testa. Il caldo marocchino è come il freddo altoatesino, ti invita a vedere se ce la fai, ti sfida, ti stimola, il contrario del caldo umido della pianura padana, di Venezia, che fiacca e invita non far niente. Per trovare l’imponente Bab el Mansour, una delle più belle porte del Marocco dice il baedeker, sbagliamo strada, ci sono alcune città in cui la freccia centro porta in più direzioni, qui la freccia non c’è e quindi le direzioni aumentano. Ci fermiamo a cercare l’illusione di un po’ di refrigerio sotto gli alberi che costeggiano un grande bacino d’acqua coronato da un lato da archi che potrebbero esser romani ma non lo sono, è il bassin de l’Agdal, un grande bacino d’acqua che si narra alimentasse i giardini del sultano e nel quale si rinfrescavano i suoi 120.000 cavalli. “Meknes è una bella ragazza con un lunghissimo vello e gli occhi verdi che siede sul fiume di Bouferkrane. Verde è il colore di Meknès, azzurro di Fes, rosso di Marrakesh, bianco di Rabat”, racconta Abdul Wahid la guida che lavora al mausoleo di Moulay Ismail, una delle poche moschee visitabili del Marocco. Sembra uscito da un fumetto di Tex Willer: pelle di cuoio, occhiali scuri, cappellaccio di paglia e le maniche della camicia tirate su. Non smette mai di parlare nel suo francesarabospagnolitaliano. “L’islam è Nur, il sole, la luce; senza luce non c’è niente: Nur fa nascere la pioggia dall’oceano e il vento, poi la porta sulle regioni fertili. L’acqua e il tempo sono fondamentali nell’Islam, molto importante è il tempo delle preghiere: la prima un’ora e mezzo prima dell’alba, la seconda a mezzogiorno quando l’ombra è vicina a noi, la terza tre ore dopo, la quarta al tramonto e l’ultima quando ci sono le stelle in cielo. Salat, la preghiera quotidiana, è uno dei cinque pilastri dell’Islam insieme alla shahada, la testimonianza di fede, zakat l’elmosina, sawm il digiuno nel mese di ramadan e hajj, il pellegrinaggio alla Mecca.” Momento di pausa, Allah Akbar ...canta il muezzin e Abdul (che è uno dei 99 nomi del profeta) traduce subito dio è grande e non c’è altro dio al di fuori di lui. Non smette mai di parlare. Racconta che è anche poeta e che partecipa al festival di poesia popolare El Melhoen che si organizza a Fes in primavera. Imita i gesti rituali delle abluzioni davanti alla fontana, racconta la leggenda di Fatima, delle 500 concubine e dei 700 figli di Moulay, ci accompagna nelle vicine prigioni (Koubba el Khayatine) e inanella storie terribili di condannati a morte e di traditori puniti. Alla fine la mancia di 50 dirham non basta, mi fa capire che è meglio 150, il denaro non è importante e Allah vede le buone azioni. Insciallah. La macchina nel tragitto verso Volubilis diventa incandescente ma la ricompensa è superiore al disagio. Tra le colline del medio Atlante spunta un pezzo di Roma: la città di Volubilis, distesa come un drago multiforme su un tappeto verdegiallo. La basilica sul colle più alto annuncia quella che era una grande città; l’arco di trionfo dell’imperatore Caracalla incornicia terreni disabitati; lungo il foro i resti delle case e i mosaici sorprendono il visitatore: gli animali marini della casa di Orfeo, un pavimento che mostra le fatiche di Ercole, Afrodite che fa il bagno, Bacco e Arianna. Si può scegliere se scoprire questa città da soli o accompagnati dalla solita guida che ripete la solita pappardella. Senza, sicuramente si perde qualche chicca ma si può fantasticare in santa pace e lasciarsi sorprendere da apparizioni inaspettate. Si sta, a Volubilis, come in una spiaggia deserta cercando qualcosa tra la sabbia, ogni tanto si ha fortuna e ci si chiede chi furono quelli che calpestarono il mosaico che ci sta davanti agli occhi e che storie si intrecciarono a quelle suggerite dalle figure, altre volte non s’incontrano che pietre, qualche allodola spaesata o bizzarre cicogne sedute sul nido in cima alle colonne. Alle quattro di pomeriggio da un paesino distante arriva la voce del muezzin. A Volubilis occidente e oriente s’incontrano così. Sulla via del ritorno un’altra sorpresa: il lago di Nzala el Oudaia, un’immensa distesa azzurra che sembra un miraggio nel paesaggio giallo assolato.

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