"Nel blog l'altro può firmare nel tuo testo, esiste uno spazio per chiunque decida di arrivare"
mercoledì 28 settembre 2011
Di qua del mondo, di là del mondo
E quello che non c’è quello che manca
Quello sguardo da sotto e poi quell’’aria stanca
E quello che non c’è che fa più male
Che non capisci non riesci a dire
E non sai cosa vuoi. No non è vero !
Ma certo che lo sai, fin troppo bene!
Li vuoi avere intorno, vuoi sentire
Che gli importa di te, fargli capire
Che sei con loro, che lo senti il bene
E non lo vuoi e non lo sai più dire
E poi la rabbia e poi quel nodo in gola
La fretta di trovare una parola
Che si alzi da sola e che li tocchi
Che li accarezzi appena da fratelli
Che dica più di quello che vuol dire
No! non dica ma faccia quella cosa
Che non hai più saputo come fare
Nemmeno adesso poi, proprio con quelli
Che ti stanno di più dentro nel cuore .
E’ la parola giusta che non viene
E’ la matassa che non sta più insieme
E l’amore che pensi aver avuto
Come un feudo per te, senza scadenza,
Potresti averlo già tutto perduto
E continui a guardare, in ogni sguardo
Ogni viso che passa, ogni tramonto
Per vedere se dietro c’è qualcosa
Quella cosa che cerchi, quella rosa
Lì sospesa nel vuoto senza appigli
Tu che hai passato la più grande parte
Dei tuoi secondi che vanno nei minuti
Dei minuti che vanno nelle ore
Delle ore che fanno i giorni e gli anni
Di là di là, proprio dall’altra parte,
Quella sbagliata, quella che separa
E non hai mai avuto nostalgia
Mai, nemmeno un secondo
Che non sia del finito, l’al di qua
La parte nostra, quella che si perde
Nella nostra paura e si consuma.
Lo dovresti sapere che non serve
Questo tremito, l’ansia di vedere
Come quando spiavi da bambino
Il grande fuori intorno al tuo giardino
E che dall’altra parte del recinto
Non ci sono le rose i gelsomini
Non ci sono le voci calde e belle
Non c’è la vista larga che ti nutre
E che quando sei solo ti consola.
Ma saperlo non serve proprio a niente
Non ti riesce mai di farne a meno
E’ quello che non c’è quello che manca
Che ti fa stare lì coi sensi all’erta
Come un piccolo cane che s’inquieta
Quando fiuta la grandine nell’aria.
E’ quello che non c’è, quello che manca,
Quello che manca che fa tutto il male
quello che manca che fa tutto il bene.
Riccardo Held per Nuovi argomenti
martedì 27 settembre 2011
Sentieri di sabbia
Il buio e il vento hanno cancellato le nostre tracce. La sabbia è un volto che cambia faccia, ora sembra sorriderti, e maledirti, e dimenticarti. Gao,Timbuktu, Ghadames, Dienné, sono le oasi per salire a Nord. Abbiamo ingrassato diecimila dromedari per tre mesi. Una lunga colonna di bestie e uomini avanza verso l'Europa con penne di struzzo, allume, incenso, perle, datteri, turbanti, caftani, avorio, oro, schiavi. Due mesi nella sabbia muta, secca, silenziosa. Torniamo su passi di altri che non vediamo, per ripeterli per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Il viaggio ripete se stesso, il viaggiatore segue viaggiatori che non vede. Prima di noi Cambise il persiano smarrì sé stesso e cinquantamila uomini tra le dune. Dopo di noi i portoghesi di Mina, con le loro navi, i tessuti, le coperte dell’Alentejo, le bacinelle di rame che arrivano da Anversa, e poi cavalli e grano marocchini in cambio schiavi, polvere d’oro e finto pepe nero. Più avanti nel tempo i crudeli passeur, i trafficanti di uomini, e aerei traboccanti di cocaina. Il vento ora si alza e avvolge la sabbia come nebbia sul mare.
Youssef Dhari, maestro dell'acqua e scrivano del "lungo sentiero" del Sultanato di Agadez
(Da un manoscritto risalente alla prima metà del Quattrocento, conservato al Musée National Majid di Niamey)
giovedì 22 settembre 2011
Bugie e verità
Cercare la verità è cercare come le cose sono, ma come le cose sono in realtà è forse impossibile saperlo perché mancano sempre diversi elementi per descrivere come le cose sono. Cambiano i contesti, cambiano i fini, la verità s'intravede appena, come una fugace apparizione nella nebbia, sembra non riesca a mostrarsi se non in compagnia della menzogna. Anche il bene, come la bellezza, si stagliano spesso in paesaggi cupi. Di seguito alcuni esempi di menzogna sulle cui differenze e analogie si potrebbe ragionare a lungo. In una recente intervista di Piergiorgio Odifreddi al matematico francese Cedric Villani si legge:
P.O. So che lei considera i modelli matematici delle menzogne.
C.V. "I modelli sono ciò s cui lavoriamo e che capiamo, le cose a cui abbiamo accesso e che possiamo studiare. La realtà, invece, ci sfugge e non sappiamo cosa sia: le apparteniamo, ma non la conosciamo. La menzogna si nasconde nel riduzionismo matematico: è così potente, che finiamo per credere che coincida con la verità. Al punto che, a volte, ci dimentichiamo che il mondo è molto più complesso dei nostri meravigliosi modelli, o dei nostri meravigliosi teoremi."
P.O. Il fatto che la matematica funzioni non è già una prova indiretta che ha a che fare con la realtà?
C.V. "Questo è ciò che crediamo, infatti, ma spesso ci sbagliamo. Pensiamo, ad esempio, al calcolo di Fourier dell'età della Terra. La matematica era meravigliosa, il modello meraviglioso, la formula meravigliosa, ma il risultato era sbagliato. E lo era, perché la terra è molto più complicata di una palla, con la sua crosta e i moti convettivi al suo interno."
P.O. Ci sono altre menzogne della matematica?
C.V. "Certo. La seconda è quella insita nelle dimostrazioni, nel nostro sistema di comunicazione dei risultati: Dalle dimostrazioni non traspaiono il meccanismo e il percorso di pensiero che hanno permesso di arrivare ai teoremi. Si bara approssimando, deformando, illustrando. E più si comunica a gente intellettualmente lontana dal proprio campo di lavoro, più si bara per rendere le cose accettabili. Le menzogne peggiori si dicono sicuramente nelle conferenze divulgative." (considerazioni che potrebbero applicarsi anche a storici, archeologi, antropologi, medici...)
P.O. Quindi a mentire non non è solo la matematica, ma sono anche i matematici.
C.V. "Mente la matematica nei confronti dei matematici. Mentono i matematici nei confronti degli altri matematici, e degli altri in generale. Ma c'è anche una terza menzogna, del matematico nei confronti di se stesso. Accade quando ci si affeziona talmente a una teoria, o a un'idea, che non si riesce a lasciarla andare: passare a qualcos'altro, sembra un tradimento."
Oltre alla menzogna teoretica, se possiamo definirla così, c'è quella "a fin di male", per esempio le bugie dei dittatori di tutte le epoche. Diverse ancora le bugie "a fin di bene", vengono in mente Giorgio Perlasca che con i suoi finti salvacondotti salvò migliaia di ebrei, o Adolf Kaminsky la cui storia è riassunta nel post precedente e raccontata nel libro "Adolf Kaminsky, una vita da falsario". Eppure, in questo incrociarsi di manipolazioni, malintesi, alterazioni, ci sembra di scorgerla, la verità, di intuirla, senza però saperla dire, se non cadendo in un'approssimazione.
P.O. So che lei considera i modelli matematici delle menzogne.
C.V. "I modelli sono ciò s cui lavoriamo e che capiamo, le cose a cui abbiamo accesso e che possiamo studiare. La realtà, invece, ci sfugge e non sappiamo cosa sia: le apparteniamo, ma non la conosciamo. La menzogna si nasconde nel riduzionismo matematico: è così potente, che finiamo per credere che coincida con la verità. Al punto che, a volte, ci dimentichiamo che il mondo è molto più complesso dei nostri meravigliosi modelli, o dei nostri meravigliosi teoremi."
P.O. Il fatto che la matematica funzioni non è già una prova indiretta che ha a che fare con la realtà?
C.V. "Questo è ciò che crediamo, infatti, ma spesso ci sbagliamo. Pensiamo, ad esempio, al calcolo di Fourier dell'età della Terra. La matematica era meravigliosa, il modello meraviglioso, la formula meravigliosa, ma il risultato era sbagliato. E lo era, perché la terra è molto più complicata di una palla, con la sua crosta e i moti convettivi al suo interno."
P.O. Ci sono altre menzogne della matematica?
C.V. "Certo. La seconda è quella insita nelle dimostrazioni, nel nostro sistema di comunicazione dei risultati: Dalle dimostrazioni non traspaiono il meccanismo e il percorso di pensiero che hanno permesso di arrivare ai teoremi. Si bara approssimando, deformando, illustrando. E più si comunica a gente intellettualmente lontana dal proprio campo di lavoro, più si bara per rendere le cose accettabili. Le menzogne peggiori si dicono sicuramente nelle conferenze divulgative." (considerazioni che potrebbero applicarsi anche a storici, archeologi, antropologi, medici...)
P.O. Quindi a mentire non non è solo la matematica, ma sono anche i matematici.
C.V. "Mente la matematica nei confronti dei matematici. Mentono i matematici nei confronti degli altri matematici, e degli altri in generale. Ma c'è anche una terza menzogna, del matematico nei confronti di se stesso. Accade quando ci si affeziona talmente a una teoria, o a un'idea, che non si riesce a lasciarla andare: passare a qualcos'altro, sembra un tradimento."
Oltre alla menzogna teoretica, se possiamo definirla così, c'è quella "a fin di male", per esempio le bugie dei dittatori di tutte le epoche. Diverse ancora le bugie "a fin di bene", vengono in mente Giorgio Perlasca che con i suoi finti salvacondotti salvò migliaia di ebrei, o Adolf Kaminsky la cui storia è riassunta nel post precedente e raccontata nel libro "Adolf Kaminsky, una vita da falsario". Eppure, in questo incrociarsi di manipolazioni, malintesi, alterazioni, ci sembra di scorgerla, la verità, di intuirla, senza però saperla dire, se non cadendo in un'approssimazione.
mercoledì 21 settembre 2011
Une vie de faussaire
"Nato in Argentina nel 1925 da genitori ebrei di origine russa, Adolfo Kaminsky si trasferì con la famiglia in Francia nel 1932, giusto in tempo per vedere, di lì a pochi anni, lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, l'invasione tedesca e lo scatenarsi dell'antisemitismo nazista. Dopo che, nel 1940, sua madre era stata assassinata dai nazisti, egli stesso e tutta la sua famiglia vennero internati nel famigerato campo di concentramento di Drancy, alle porte di Parigi, dal quale riuscirono però fortunosamente ad uscire. Immediatamente Kaminsky, che aveva allora diciassette anni, entrò in clandestinità, e mettendo a frutto la sua profonda passione per la chimica ed un incredibile talento, divenne in breve tempo il maggior esperto della Resistenza nella fabbricazione di documenti falsi. Grazie al suo lavoro indefesso, migliaia di ebrei riuscirono a sfuggire alle retate, e centinaia di partigiani poterono continuare la loro attività nella guerra di liberazione. Finita la guerra, Kaminsky si rese conto che gli ideali di libertà per i quali aveva combattuto erano ben lontani dall'essere stati attuati. Venne arruolato dai Servizi Segreti francesi, ma ne uscì quasi subito, rifiutandosi di partecipare alla guerra colonialista in Indocina. Da quel momento, la sua prodigiosa abilità verrà messa al servizio dei più diversi movimenti di liberazione e di decolonizzazione nel mondo. Prima lavorò per il celebre Réseau Jeanson, che sosteneva i militanti del FLN in Francia contro la guerra colonialista in Algeria. Successivamente lavorerà per i movimenti indipendentisti di Brasile, Argentina, Venezuela, Salvador, Nicaragua, Colombia, Perù, Uruguay, Cile, Messico, Santo Domingo, Haiti, Guinea Bissau, Angola. Aiutò i combattenti dell'Africa del Sud durante il regime dell'apartheid, quelli del Portogallo durante il governo del fascista Salazar, gli antifranchisti di Spagna, i resistenti della Grecia contro il regime dei Colonnelli, i disertori americani che non volevano combattere in Viet-Nam. Finanziò le proprie attività lavorando come fotografo, rifiutandosi sempre ed ostinatamente di essere pagato per il suo ‘lavoro', da cui non ricavò mai nessun tornaconto personale, ma per il quale rischiò invece spessissimo la galera. Abbandonò l'attività nel 1971, ritirandosi a vita privata in Algeria, dove si mantenne insegnando fotografia in un istituto superiore. Oggi Adolfo Kaminsky vive in Francia, e la sua vita - una nobile avventura di oscuro ed eroico impegno per la libertà dei popoli - è stata raccontata dalla figlia Sarah nel libro "Adolfo Kaminsky, une vie de faussaire", pubblicato nel 2009 da Calmann-Lévy." Il libro è oggi pubblicato da Angelo Colla, piccolo ma colto e raffinato editore vicentino: Adolfo Kaminsky, Una vita da falsario . La traduzione è di Giuliano Corà che è anche l'autore del testo sopra riportato che si trova in http://giulianolapostata.wordpress.com/2011/01/30/s-kaminsky-adolfo-kaminsky-una-vita-da-falsario-angelo-colla-editore-vicenza-2011-traduzione-di-giuliano-cora/
martedì 20 settembre 2011
Con la coda dell'occhio
La proiezione del corpo avanza, sorride malinconica, si impegna in cose in cui non crede. Con la coda dell’occhio osserva il quadrante dell’orologio. La proiezione copre l’essere che si è seduto, socchiude gli occhi e ascolta il fiume sotterraneo. La vita non si cura dei suoi sbagli, allora deve salvare ogni momento, riposare un pò e prendere tempo, respirare a fondo. Continua a recitare mentre la paura osserva, sorridente, il suo essere debole.
Elle
Elle
lunedì 19 settembre 2011
Costruire
Le tessere del mosaico si componevano giorno dopo giorno. Lo spazio che non c’era ancora era già nato nelle nostre parole. Eravamo mossi da un comandamento, da un desiderio, da un progetto. Milioni di gesti per una cosa sola. Non conoscevamo ancora la città che stavamo costruendo, l'avremmo conosciuta strada facendo. Lavoravamo per lasciare una traccia del nostro cammino nel mondo, i luoghi intorno a noi cambiavano da una stagione all’altra, i ricordi crescevano da un anno all’altro e diventavano immagini. Il tempo non abitava solo nei calendari, nelle date, negli orari, il tempo era il nostro guardare le cose che si trasformavano. Quelli che erano con noi aspettavano un'unica risposta: Andare avanti. Anche le grandi emozioni hanno le loro regole.
giovedì 15 settembre 2011
Il violinista e le stelle
Il giovane violinista sapeva suonare in un modo talmente bello e incantevole che lo sentivano addirittura i sordomuti degli ospizi e ne ripetevano le melodie. Le stelle danzavano in cielo, e perfino le stelle fisse giravano in tondo. Col suo violino il giovane musicista rivoluzionava l'intera astronomia, e i professori ce l'avevano con lui, perché le stelle fisse osavano rinunciare alla propria fissità contro ogni legge scientifica e si mettevano a ballare.
Joseph Roth, Il secondo amore
Joseph Roth, Il secondo amore
mercoledì 7 settembre 2011
Diario marocchino - Fes
Fes è uno scrigno che contiene dentro di sé mille strade e mille sguardi, ma sopra ogni cosa, ogni the alla menta, ogni saluto, c’è un signore che non ha un volto ma 99 nomi: Allah, Rafi, Latif, Nur... Tutto rimanda a dio, qui religione e vita sono una cosa sola, non c’è spazio per il dialogo socratico né per lo spirito illuministico, è le bon dieu che ha già deciso quel puoi e non puoi fare, quel che accadrà. Le Matin, uno dei quotidiani del Marocco, dedica ogni giorno un’intera pagina al Ramadan, il mese sacro. In quella di oggi sono riportati anche gli orari delle preghiere e un hadith (precetto): “Chi per dimenticanza mangia o beve deve continuare a digiunare perché è dio che ha deciso che lui abbia mangiato o bevuto”. Una delle espressioni usate più frequentemente nei dialoghi è Insciallah, “se dio vuole”, ma anche “dio sia con te”; che Allah sia presente anche nelle formule di saluto hello, hallo, Holà? La fede di questa gente è contagiosa, invita a parteciparvi e nello stesso tempo non ci appartiene. La medina di Fes è la metafora dello scrigno, di questa religione segreta non perché siano segreti i testi cui si ispira, ma perché privato, personale, segreto, impenetrabile, è il rapporto che ogni musulmano ha con dio, un rapporto che impregna e guida e spiega ogni gesto della sua vita. Un dio così segreto da essere irrapresentabile. La medina è una metafora di questo scrigno con le mille botteghe che contengono spazi che non immagineresti, terrazze che si aprono su panorami inattesi. Segrete sono le parole in arabo che non capisci e le mille vite che ti passano accanto e che non conoscerai mai, i mille poveri che farai finta di non vedere o che fotografi perché ti sembra che anche loro abbiano un segreto, loro ti raccontano che si può vivere con niente, tendendo una mano, cosa che tu non faresti, non la faresti mai una vita da niente, perché ti sfugge il segreto, anzi no, un po’ lo intuisci, il vero piacere non sta in quanto puoi avere ma nel godere di quel niente, di quel nulla che non è nulla ma acquista grandezza nella mancanza, nell’assenza. Come quando rinunci a mangiare pur avendo fame o a bere pur essendo assetato, prova a resistere anche solo quattro ore e poi qualsiasi cosa ti sembrerà la migliore che tu abbia mai mangiato o bevuto. I poveri che tendono la mano ti raccontano la fiaba di quel niente che può trasformarsi in fiore profumato, in una focaccia calda, in un the alla menta, in un sorriso. Sono cose da niente?
La medina ti racconta anche il segreto di tante strade, di tanti vicoli, e porte che non scoprirai eppure vorresti. Le strade che non percorri sono scrigni che restano chiusi La medina è la metafora di un mistero, di quel qualcosa di cui non potrai dire, di quel qualcosa che si nasconde dietro altre porte che stanno nascoste dietro quelle che vedi. Mentre passeggi nello scrigno della medina sei inseguito dalle domande, domande di carità per vivere o sopravvivere, in questo senso sono domande essenziali: Dirham, Dirham, sussurra il poveraccio all’angolo; Vuole comprare un tappeto dice sorridente un commerciante. Indimenticabile quello che salì con i piedi sulla teiera per dimostrare che era robusta e che il prezzo era regalato. Gentile il gioane che aveva messo da parte l’obiettivo dimenticato della macchina fotografica. Sgarbato il venditore che dopo averci fatto salire sulla terrazza da cui si vedevano i conciatori ci ha obbligati a comprare una borsa.
Serve una guida? Taxi? Un piccolo specchio? In somma : mi dai da mangiare? O anche: tu che sei uno che ha più di me perché non mi aiuti? Ci sono anche altre domande che stanno sullo sfondo di molti dialoghi in cui in modo beneaugurante ricorre il nome di Allah: Come mai non capisci che questa è la strada da seguire, Perché non diventi mussulmano, pensaci non c’è una buona ragione per non diventarlo. Viene in mente la guida del mausoleo di Moulay Ismail a Meknes che davanti ad una fontana mostrava le abluzioni che devono precedere la preghiera, al di là delle parole che spiegavano il susseguirsi e il significato dei diversi gesti, i suoi occhi dicevano Purificati anche tu, Prega Allah insieme a noi. Non puoi sfuggire al religioso in Marocco. Allah era presente anche nel riad che ci ospitava, il suo nome, Baraka, che in italiano rimanda a una poco rassicurante costruzione, in arabo significa energia spirituale, l’energia che si sprigiona nelle preghiere. Il riad Baraka, come molte altre costruzioni, non annunciava la sua architettura dall’esterno, un esterno anonimo se non fosse per due piante ornamentali ai lati dell’ingresso. Ma una volta varcata la soglia mostrava i colori rossi e marroni della sala del the, i colori più chiari delle zelliges, le piastrelle colorate che compongono motivi geometrici e floreali, e delle fontane intorno alla piscina costruita come un impluvium romano, con l’apertura che permette al cielo azzurro chiaro di specchiarsi nell’acqua, e poi tante porte e piccole scale. Come non pensare a una fiaba delle Mille e una notte raccontata dopo il tramonto. In una di quelle stanze, la sera prima di partire, una figura bianca si alzava e si abbassava, cantava sottovoce, stava pregando, era la cuoca del riad. Samir, direttore del piccolo albergo, invece era il maggiordomo perfetto già incontrato in alcuni gialli inglesi: occhi attenti, voce calma, gentilezza attiva e massima discrezione, uno che non ama far domande ma nemmeno riceverne.
Se uno dorme poco in camera la notte, svegliato dagli scherzi e dalle frasi dei ragazzotti che in festa per il Ramadan si attardano nella via sotto la finestra, puo raggiungere uno dei divani ai bordi della piscina e, cullato dall’ultimo canto del muezzin e da una leggera brezza che sembra arrivare direttamente dal cielo stellato, addormentarsi. Mario e Alessia erano in viaggio di nozze, sono due avvocati di Roma, li abbiamo conosciuti il primo giorno appena arrivati al riad. Lui ama scherzare e se ne intende di tecnologia, lei è più riflessiva e sognante. A volte le persone si riconoscono per affinità. I mussulmani aggiungono un alcunché, a volte ti senti accolto come da un parente che non vedi da molto tempo. C’è un’educazione che mostra le sue percettibili tracce nel corso dell’incontro. Forse è venuto il momento di parlare di Chaimà. Chaimà è una ragazza che abbiamo incontrato per caso nella medina. Stavamo cercando di raggiungere piazza...quando Chaimà, il bel volto incorniciato dal velo, ci ha sorpreso in perfetto italiano: “Ma siete italiani?”. Nata e cresciuta a Sanremo era tornata in Marocco per il Ramadan. Insieme alle cugine ci ha invitato a fare un tratto di strada insieme e poi a casa sua poiché si approssimava l’ora della ftur, il pasto che interrompe il digiuno e nel quale non mancano mai i datteri e la harira, una zuppa di legumi. Sarebbe stata anche l’occasione per presentarci suo zio che fa la guida turistica. Abbiamo cercato di opporre una gentilezza europea ma il suo solare entusiasmo ci ha convinto. Così ci siamo trovati intorno ad un tavolo a interrompere il digiuno insieme a una famiglia marocchina mai vista prima. Impensabile in Italia.
martedì 6 settembre 2011
Diario marocchino – Volubilis - Meknes
Si va verso Volubilis passando per Meknes. Lungo la strada vecchie mercedes imbottite di persone, sono i taxi collettivi, partono quando i posti sono al completo e l’autista giudica soddisfacente la ricompensa, pick up con i lati del cassone usati come sedili, motocarri di trent’anni fa e autobus che viaggiano con la portiera aperta per il caldo. Non mancano asini che trainano carretti o che trasportano lentamente i contadini e le loro bisacce. Molte macchine in Marocco non hanno l’aria condizionata, e quindi si trasformano presto in un microonde, mettere il braccio fuori dal finestrino non serve a molto, è come metterlo sotto il getto di un potente fohn. Che si fa allora? Ci si distrae con la musica, si passa sulla faccia la bottiglia di acqua gelata che rapidamente prende temperatura, si bagna un fazzoletto e lo si passa sulla fronte e sul collo. I tassisti di Fes per resistere tutto il giorno circolano con un asciugamano bagnato sulla testa. Il caldo marocchino è come il freddo altoatesino, ti invita a vedere se ce la fai, ti sfida, ti stimola, il contrario del caldo umido della pianura padana, di Venezia, che fiacca e invita non far niente. Per trovare l’imponente Bab el Mansour, una delle più belle porte del Marocco dice il baedeker, sbagliamo strada, ci sono alcune città in cui la freccia centro porta in più direzioni, qui la freccia non c’è e quindi le direzioni aumentano. Ci fermiamo a cercare l’illusione di un po’ di refrigerio sotto gli alberi che costeggiano un grande bacino d’acqua coronato da un lato da archi che potrebbero esser romani ma non lo sono, è il bassin de l’Agdal, un grande bacino d’acqua che si narra alimentasse i giardini del sultano e nel quale si rinfrescavano i suoi 120.000 cavalli. “Meknes è una bella ragazza con un lunghissimo vello e gli occhi verdi che siede sul fiume di Bouferkrane. Verde è il colore di Meknès, azzurro di Fes, rosso di Marrakesh, bianco di Rabat”, racconta Abdul Wahid la guida che lavora al mausoleo di Moulay Ismail, una delle poche moschee visitabili del Marocco. Sembra uscito da un fumetto di Tex Willer: pelle di cuoio, occhiali scuri, cappellaccio di paglia e le maniche della camicia tirate su. Non smette mai di parlare nel suo francesarabospagnolitaliano. “L’islam è Nur, il sole, la luce; senza luce non c’è niente: Nur fa nascere la pioggia dall’oceano e il vento, poi la porta sulle regioni fertili. L’acqua e il tempo sono fondamentali nell’Islam, molto importante è il tempo delle preghiere: la prima un’ora e mezzo prima dell’alba, la seconda a mezzogiorno quando l’ombra è vicina a noi, la terza tre ore dopo, la quarta al tramonto e l’ultima quando ci sono le stelle in cielo. Salat, la preghiera quotidiana, è uno dei cinque pilastri dell’Islam insieme alla shahada, la testimonianza di fede, zakat l’elmosina, sawm il digiuno nel mese di ramadan e hajj, il pellegrinaggio alla Mecca.” Momento di pausa, Allah Akbar ...canta il muezzin e Abdul (che è uno dei 99 nomi del profeta) traduce subito dio è grande e non c’è altro dio al di fuori di lui. Non smette mai di parlare. Racconta che è anche poeta e che partecipa al festival di poesia popolare El Melhoen che si organizza a Fes in primavera. Imita i gesti rituali delle abluzioni davanti alla fontana, racconta la leggenda di Fatima, delle 500 concubine e dei 700 figli di Moulay, ci accompagna nelle vicine prigioni (Koubba el Khayatine) e inanella storie terribili di condannati a morte e di traditori puniti. Alla fine la mancia di 50 dirham non basta, mi fa capire che è meglio 150, il denaro non è importante e Allah vede le buone azioni. Insciallah. La macchina nel tragitto verso Volubilis diventa incandescente ma la ricompensa è superiore al disagio. Tra le colline del medio Atlante spunta un pezzo di Roma: la città di Volubilis, distesa come un drago multiforme su un tappeto verdegiallo. La basilica sul colle più alto annuncia quella che era una grande città; l’arco di trionfo dell’imperatore Caracalla incornicia terreni disabitati; lungo il foro i resti delle case e i mosaici sorprendono il visitatore: gli animali marini della casa di Orfeo, un pavimento che mostra le fatiche di Ercole, Afrodite che fa il bagno, Bacco e Arianna. Si può scegliere se scoprire questa città da soli o accompagnati dalla solita guida che ripete la solita pappardella. Senza, sicuramente si perde qualche chicca ma si può fantasticare in santa pace e lasciarsi sorprendere da apparizioni inaspettate. Si sta, a Volubilis, come in una spiaggia deserta cercando qualcosa tra la sabbia, ogni tanto si ha fortuna e ci si chiede chi furono quelli che calpestarono il mosaico che ci sta davanti agli occhi e che storie si intrecciarono a quelle suggerite dalle figure, altre volte non s’incontrano che pietre, qualche allodola spaesata o bizzarre cicogne sedute sul nido in cima alle colonne. Alle quattro di pomeriggio da un paesino distante arriva la voce del muezzin. A Volubilis occidente e oriente s’incontrano così. Sulla via del ritorno un’altra sorpresa: il lago di Nzala el Oudaia, un’immensa distesa azzurra che sembra un miraggio nel paesaggio giallo assolato.
lunedì 5 settembre 2011
Diario Marocchino - Fes-Rabat
La Gare de Fes è costruita come una porta della medina, con il profilo superiore che riprende la sagoma della cupola araba, immagino una stazione italiana costruita come uno dei portoni delle città medievali. La porta porta da qualche parte, aiuta a passare da un mondo all’altro, da un luogo all’altro, dal dentro al fuori, è un elemento simbolico molto forte. Anche salire su un treno è aprire una porta verso un nuovo spazio-tempo. I nostri biglietti sono per Rabat, la capitale. Di una città sono le prime cose che vedi sono quelle che ti rimangono più impresse. Percorrendo la via principale della medina, Avenue Mohammed V, sei portato a proseguire verso un ingresso un po’ fatiscente in salita alla fine della strada, è l’ingresso del grande cimitero As Shouhada, migliaia di tombe che digradano verso l’oceano. Non te l’aspetti, e se il cielo è grigioatlantico un po’ di malinconia ti piove addosso. Quando fai il bagno ce l’hai alle spalle insieme alle maestose mura della Kasbah (fortezza) des Oudaias che nasconde abitazioni bianche e azzurre che pensavi si trovassero solo in Grecia. Lì, in riva al mare, c’è un ristorante di pesce che si chiama Borj Eddar, il pesce non è granché ma se vuoi trovare degli italiani sia a pranzo che a cena vai a colpo sicuro. Lungo Avenue Mohammed V c’è anche Mohammed (non so se sia il nome riservato ai turisti) il libraio più singolare che abbia mai incontrato: se ne sta tutto il giorno accovacciato in un bugigattolo stipato di libri usati e vecchie riviste. Quelle che toglie per costruirsi il suo nido tra le carte le espone sulle porte e sui muri intorno alla bottega-edicola-libreria. Per 15 dirham (poco più di un euro) si possono comprare dei numeri della rivista Les Temps Modernes diretta da Sartre, copie di Paris Match, un’edizione de Les fleurs du mal del 1967 dell’Università di Bucarest con testo rumeno a fronte, Les yeux d’Elsa di Louis Aragon o un’edizione Lattès delle poesie di Verlaine. Non lontano da Mohammed, tra numerose botteghe e carretti che vendono fichi d’india, c’è Hajar che insieme alla mamma prepara e cucina focacce e ciambelle. I suoi occhi da gazzella e il suo gioioso sorriso sono difficili da dimenticare, la ciambella al pomodoro e cipolla, condita con grasso di agnello, anche.
A Rabat si comincia a essere contagiati dalla frenesia della ftur di cui mi aveva parlato un’amica. Ftur è la rottura del digiuno che avviene in prossimità del tramonto, verso le 7.25, ma l’orario esatto cambia a seconda della latitudine. Si può ricominciare a bere, mangiare, fumare e a fare l’amore, dopo più o meno quindici ore di astinenza. Alle sei i negozi e le botteghe cominciano a chiudere, la gente si affretta, alle sette le strade di una città trafficata come Rabat sono deserte: sono tutti a casa, nei ristoranti o nelle loro botteghe ad aspettare il segnale: la preghiera del muezzin e, in alcune città, suona anche una sirena. Va bene, ma che cosa c’entrano degli europei con tutto questo? C’entrano, perché a meno che tu non abbia indossato una sorta di impermeabile sentimentale, entri in sintonia con il luogo in cui vivi, per cui durante il giorno non hai digiunato ma hai mangiato meno; a mezzogiorno i ristoranti vuoti non fanno certo venire voglia di sedersi, né mangi o bevi per strada, sarebbe come se uno cominciasse a parlare al telefonino durante la messa di Pasqua: non si fa. Allora hai mangiucchiato un panino al riad o bevuto una bibita appartandoti, oppure hai deciso di vedere se ce la fai anche tu a resistere. Ecco, ci siamo seduti al ristorante El Bahia, appena fuori dalla medina, alle 7 con una fame da lupi. Seduti agli altri tavoli diversi marocchini e qualche turista in attesa, solo una coppia di francesi mangia ma è una nota stonata. Il menu de la rupture du jeune a 30 dirham prevede: Harira, una zuppa di carne e legumi, un uovo, Chebakia, un impasto di farina e miele fritto, datteri, fichi, spremuta d’arancio, caffelatte o the alla menta. In un tavolo vicino al nostro è seduto un signore che ha la faccia di un monaco buddista e che indossa un’elegante jallaba ricamata color crema. Lo eleggiamo a nostra “guida spirituale”: inizieremo a mangiare quando inizierà lui, cioè al termine della preghiera del muezzin.
Rabat ha una tranvia più moderna di quella di Milano ma la cosa curiosa è che sono state assoldate squadre di servizio d’ordine che hanno il compito di allontanare le numerose persone che camminano tranquillamente tra le rotaie e di fermare e di bloccare gli automobilisti che non rispettano semafori e precedenze. Un bel contrasto fra tecnologia e vecchie abitudini. Inoltre il tram non è mai affollato perché costa un dirham in più rispetto al petit taxi. La sera beviamo un the alla menta sulla terrazza del riad, c’è la luna piena e intorno alle undici, come voci d’uccelli che si confondono, giungono dalle diverse moschee le preghiere, una ninna nanna misteriosa che rinvia a qualcosa di più grande sopra di noi. Una ninna nanna più suggestiva della torre di Hassan, il monumento simbolo di Rabat, con la sua foresta di colonne che avrebbe dovuto diventare la seconda moschea del mondo islamico per grandezza. Nell’aria fresca della sera i profumi dei fiori si mescolano a quelli delle spezie e del mare che si intuisce al di là dei tetti. Chissà dove sono adesso Hajar e il santone con la jallaba ricamata, cosa stanno facendo, come sono le loro vite, come sarebbero le nostre qui? E Mohammed chiusa la sua libreria-tana dove si rifugia? Anche la signora che gestisce questo riad è un personaggio. Si chiama Christine, porta degli occhiali a goccia, capelli grigi, è smilza e fuma Gauloises. Christine fa le veci del figlio che per agosto se n’è andato in Madagascar. La aiutano Latifa, una domestica che ride sempre e che nei momenti di pausa legge il Corano, e l’amica Francoise che tanti anni fa s’innamorò di un marocchino e poi della lingua araba che studia ancora oggi. Christine insegnava francese agli immigrati, Francoise era preside di un istituto tecnico, ora sono in pensione e il resto dell’anno abitano ad Ange nella valle della Loira. Christine una sera ci ha presentato Alain, un Depardieu parigino con il quale abbiamo discusso per ore sul sentimento d’identità nazionale in Francia e in Italia, scoprendo con una certa sorpresa che secondo molti francesi gli italiani sarebbero più orgogliosi di essere italiani di quanto non lo siano i francesi di essere i francesi. Soffrono molto il blend culturale, in particolare soffrono del fatto che i campioni della nazionale di calcio come Zidane e il loro presidente Sarkozi abbiano sangue misto. Conservano nei confronti degli stranieri provenienti dalle loro ex colonie un inguaribile atteggiamento di superiorità.
domenica 4 settembre 2011
Diario marocchino - Essaouira
La strada per Essaouira corre in parte lungo la costa. Dopo una breve sosta per visitare la cisterna portoghese di El Jadida, attraversiamo anonimi villaggi. Prima di Safi s’incontrano gli impianti di un’enorme raffineria, cupe architetture di tubi fumanti sprofondano nella sabbia e nel mare. Vengono alla mente Marghera, Priolo, Taranto, La Spezia e le vite di migliaia di schiavi. Gli ultimi cento chilometri offrono splendide viste sull’Atlantico che piroetta a volte su maestosi scogli, altre su interminabili spiagge; lungo la strada un piccolo villaggio di pescatori e una moschea in riva al mare. L’appartamento ha una vetrata che si affaccia su un grande giardino, lungo il muro di cinta i ragazzini si rincorrono e giocano a pallone, alle volte passa un dromedario con un carico di legna, i poveri la mattina razzolano tra i rifiuti. La povertà non ha riti diversi dai nostri. Il nostro padrone di casa si chiama Rafi, ricorda Little John, il fedele amico di Robin Hood, al nostro arrivo ci ha accompagnato al supermercato a fare la spesa e il giorno dopo ci ha offerto la Harira e i dolcetti al miele. In Marocco, e probabilmente in altri paesi del mondo arabo, s’incontra a prima vista un calore e un’umanità che noi abbiamo perso. A Essaouira, una volta il suo nome era Mogador, si cammina su una spiaggia di dune verso un castello di scogli che la marea raggiunge in pochi minuti, gli alisei soffiano forte e catturano le voci che non raggiungono chi ti precede anche di pochi metri; la sabbia, come fa la neve trasportata dal vento, si dissolve in piccoli atomi che punzecchiano e tambureggiano le gambe e il volto. Due donne vestite di nero entrano in acqua e sembra che l’oceano se le porti via. Al tramonto le torri portoghesi sono una silhouette nera avvolta in una nube di gabbiani su sfondo arancio. La sera ci si tuffa nei colori e negli odori della medina. In un vicolo nascosto da un altro vicolo ci s’imbatte nella bottega di Youssef l’herboriste, una bottega diversa da tutte le altre: profumata, simmetrica, rilassante. All’ingresso centinaia di piante compongono un arazzo, un quadro dell’Arcimboldo, una geometria della natura. L’interno è un corridoio stretto fiancheggiato dai vasi di vetro schierati sugli scaffali: contengono spezie, profumi ed erbe che curano ogni male: cumino, zafferano, rabarbaro, menta, ortica, ginseng, zenzero, timo, fiori d’arancio, origano. Per terra i gusci d’argan e le macine per produrre l’olio di bellezza usato dalle donne berbere. Youssef è un elegante signore di mezza età, le sue jallaba hanno colori e ricami raffinati. Barba curata e naso pronunciato, esprime cultura e senso d’armonia, parla un ottimo francese e, cosa strana, non ha l’insistenza del venditore, anzi se è stanco o indaffarato ringrazia per la visita e da appuntamento per un altro giorno, per un altro momento. Forse Youssef è ebreo. Da piccolo accompagnava il nonno a scegliere le piante e lo aiutava ad essiccare le foglie e i fiori. Ogni vaso del suo atelier è una risposta e per ogni problema Youssef ha pronta la storia di un albero, di un petalo, di un seme, di una tisana, di un impacco, di una goccia miracolosa. L’importante non è il rimedio ma essere convinti che un rimedio ci sia. La medina è un labirinto percorrendo il quale alcune vie sembrano simili alle altre, dove le persone di una via del labirinto non conoscono a volte quelle di altre vie che distano solo qualche centinaio di metri, ma conoscono le diverse porte (bab) che permettono di uscire dal labirinto, Bab Boujeloud, Jdid, Rsif, nomi che cerchi di fissare nella mente ma che spesso non ricordi perché non sono la tua lingua, non appartengono alla tua strada. La vita è un continuo cercare delle porte, un passare nel labirinto: dalla porta della vita si entra, dalla porta della morte si esce. Quello che si ripete nella medina è l’esposizione infinita di cose e cibi, si moltiplica l’immagine degli oggetti che compongono la realtà, una scrittura per figure, un controcanto alla pittura non figurativa degli edifici religiosi, spartiti sovrapposti di facce e forme che raccontano il non religioso. Le immagini - bandite dalle moschee - che accettano solo motivi astratti o versi del corano che diventano ornamento - trionfano per le vie e le botteghe, veri e propri tableau vivant del mondo arabo.
Nei giorni di sereno si torna ad aspettare il tramonto in spiaggia, si gioca a freesby con degli studenti che aspettano l’ora della ftur e sembra di tornare indietro di trent’anni quando anche tu avevi la loro età. Nell’ora fatidica della ftur può succedere di entrare in una lavanderia a secco e di non vedere nessuno, i quattro ragazzi che la gestiscono sono seduti dietro il bancone e mangiano la Harira; dal nulla compare un bicchiere di the alla menta che non si può rifiutare. Alle volte viene la nostalgia di un buon bicchiere di vino, di un piatto di spaghetti, di tortellini, e dei nostri borghi medievali, dei nostri bei palazzi rinascimentali. Qui l’architettura è quella di una grande periferia, manca di continuità ed estetica, ma nel proporre cubi di mattoni accanto a case con finestre e porte di stile moresco, ruderi e moschee, nella totale dissonanza degli accostamenti, è un’architettura forse più umana e democratica, un po’ come la folla che esce dai voli low cost. Diverse cose ricordano, non so se per un bisogno di sentirsi a casa, e quindi meno estranei al luogo, i paesi del nostro sud: il caos delle architetture, i mercati, gli odori e i colori, la povertà e la trascuratezza, l’accettazione fatalistica della vita. In alcuni luoghi l’architettura non c’è proprio ma c’è qualcosa di più, come nel villaggio di pescatori che si trova a circa cinquanta chilometri da Essaouira in direzione nord, è così piccolo che non si trova nemmeno su Google maps. Cercatelo dal vivo lungo la litoranea, a un certo punto sulla sinistra si vede una piccola strada curvosa sommersa dalla sabbia: corre verso l’Atlantico e verso quattro o cinque case ai piedi di un posto di guardia, un cubo bianco sul quale sventola la stella verde su fondo rosso. Le barche dei pescatori sono blu, alcune arenate sulla sabbia sembrano nuotatori senz’acqua. Il pesce appena pescato, aragoste, gamberi, rombi, orate, è trasportato con dei carretti trainati da piccoli asini che salgono verso la strada. Nelle ore più calde i pescatori si addormentano all’ombra degli scafi. Qui il tempo si è fermato, manca tutto quello a cui siamo abituati: la gente, il bagnino, gli ombrelloni, i gabinetti, le sdraio, la doccia, eppure c’è tutto: il mare, il sole, il vento.
sabato 3 settembre 2011
Diario marocchino - Marrakech
Marrakech per me è sempre stata Marrakech Express di Salvatores con Diego Abatantuono, un bel film sull’amicizia, sul Marocco e su come alcuni italiani cercano di parlare francese senza riuscirci. Ogni riferimento autobiografico è da considerarsi puramente casuale. Solo 180 chilometri tra Essaouira e Marrakech: non potevamo rinunciare a vedere la famosa piazza Djemaa el Fnaa con gli incantatori di serpenti, i cantastorie e i musicisti. Lungo l’autostrada incontriamo una decina di macchine in un paesaggio che non è ancora il deserto ma è decisamente desertico tant’è che quando dopo chilometri nel nulla la strada sale per superare un paio di colline sembra un avvenimento. Djemaa el Fnaa: le impalcature del caffè Argana ricordano l’attentato avvenuto in aprile. Ci sono gli incantatori e anche i serpenti ma quello che fa perdere ogni incanto è la richiesta di denaro appena si accorgono che li hai guardati anche solo per un attimo. N’est pas possible! La piazza comunque è un posto davvero unico. Dopo aver camminato nelle strade della medina dove i motorini fanno a gara a sfiorarvi, soprattutto se siete turisti, aspettate ftur, se è Ramadan, o il tramonto in uno dei tanti locali lungo i suoi bordi. Cominciano gli acrobati che piroettano agili come scimmie e formano piramidi umane. Al centro della piazza si leva il fumo delle braci dei chioschi che preparano spiedini, cous cous, shawarma, i gruppi musicali gnawa danzano al ritmo incalzante di sonagliere e tamburi, i cantastorie, a volte accompagnati da suonatori di liuto e cembali, a volte solitari con qualche disegno o una spalla per le scene più impegnative, raccontano vicende d’amore e di guerra. Alcuni di questi aedi sono figure leggendarie, come Malek, un gigante che per attirare l’attenzione della gente sollevava un asino e poi, quando il pubblico si avvicinava, diceva loro “Siete proprio stupidi, se leggo due versi del Corano nessuno mi ascolta, ma per un asino arrivate in molti.” Il suono dei tamburi aumenta d’intensità all’approssimarsi di un momento cruciale del racconto. I vari crocchi di persone sono a poche decine di metri l’uno dall’altro e danno vita ad una babele di parole e musica. Badran stasera racconta la storia di un monaco e di una giovane ragazza innamorata di lui. Quando il monaco disse che non poteva amarla lei per vendicarsi giacque con un pastore, ma quando nacque il bambino accusò il monaco che fu chiamato a rispondere di quel che nona aveva commesso in un processo. Come andrà a finire il processo? Monsieur Badran chiede un contributo in denaro ai presenti prima di proseguire. È come la storia degli spot in tv: sul più bello s’interrompe il film per ragioni commerciali. L’antico aedo, il bardo, il conteur, è al passo con i tempi. Si girovaga da una storia all’altra come sfogliando un libro di racconti, e a volte s’incontrano personaggi struggenti come l’anziano musicista cieco che suona una lenta melodia con il violino andaluso. Si chiama Hassan e qui lo conoscono tutti. Lui e la moglie sono seduti su due sedie di plastica bianche, un altoparlante grigio degli anni Sessanta amplifica un suono metallico. Ai loro piedi un piatto di stagno per le offerte. Alcuni pastori dell’alto Atlante suonano musica ahidu, il minareto della Koutubia questa sera sembra tocchi la luna, un motorino mi sfiora mentre cerco di fotografare la piazza che sembra un piatto fumante.
- Un pensiero riconoscente a Rossana, Elena, Alessandra, ideali compagne di viaggio, a Michaela e Mario maestri nell’arte di viaggiare, a Barbara, Lauretta, Abdallah, Abderrazak, Stefano, con i quali sono andato alla scoperta del Marocco in lunghe e piacevoli chiacchierate, e a Cristina per le lezioni-express di francese.
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