giovedì 12 novembre 2009

Città inconfessabili


In questo quattro novembre piovoso come altri si apre a Venezia il convegno “Le città inconfessabili”, organizzato dall’Istituto Ramon Llull di lingua e cultura catalana e coordinato da Patrizio Rigobon docente di Letteratura catalana a Ca’ Foscari. Nella città unica di riflessi e labirinti, si cammina per le strade e le piazze, per gli itinerari espliciti e, a volte, segreti di un discorso cominciato da Maurice Blanchot nel 1983 con “La comunità inconfessabile”, tema del padiglione catalano della Biennale e suggestione raccolta dai relatori dell’incontro. Dopo i versi di una poesia di Narcis Comadira letti da Josep Bargallò, direttore dell’Istituto Ramon Llull, “Così si son fatte le città:/ costruite lentamente/ di pietre che ieri erano/ vite umane: amori,/ sofferenze che nessuno ricorda/, Mercè Rius ne “Le anime delle città” muove da Musil: “Si conoscono le città, come le persone, per il loro modo di camminare”, ma se nelle città lo spazio pubblico in cui camminare viene a mancare, l’ottimismo delle comunità virtuali è solo consolatorio, diventa la comunità di coloro che non hanno una comunità. “L’anima delle città – dice Rius – è il loro ritmo, in assenza del quale sono morte. E il ritmo nasce da una particolare combinazione di spazio e tempo, senza uno dei due elementi non si dà ritmo. Dunque la massificazione 0n line corrisponde alla perdita d’anima delle città reali, nelle quali i cittadini si abbandonano a movimenti frenetici, antitesi della magnanimità, in uno spazio riconosciuto solo in funzione del tempo che si impiega a percorrerlo. In compenso, mentre la città reale “dissimula” lo spazio, la città telematica”dissimula” il tempo. La sua innovazione spettacolare consiste nella riduzione infinitesimale del tempo che impiega l’informazione a spostarsi. Il suo sogno dorato, la simultaneità.” Ma comunicare non è “dire le cose”, per dire le cose bisogna scrivere. Ma per chi? “Forse la comunità di quelli che non hanno una comunità – continua Rius – si esaurisce nello stretto spiegamento spazio-temporale della scrittura come in attesa di una risposta che colui che lancia il grido probabilmente non otterrà mai. Questo solitario, se non si accontenta della possibilità di entrare nel reame dello spirito, non conoscerà altra forma di trascendenza. E non dovrà lamentarsene.” Si procede quindi nel Labirinto Lisbona accompagnati da Vincenzo Arsillo che rilegge il Libro dell’Inquietudine di Pessoa: “Il capo del mondo è in noi, a che scopo viaggiare, dove altro potrei essere se non in me stesso, la vita è ciò che faccio ora” e, Lisbon Revisited: “Una volta ancora ti rivedo, Lisbona, e Tago e tutto, viandante inutile di te e di me, straniero qui come dappertutto, casuale nella vita come nell'animo, fantasma errante in sale di ricordi, al rumore dei topi e delle tavole che scricchiolano nel castello maledetto del dover vivere...
È ora di raggiungere quartieri derridiani con la “Confessione inconfessabile: la città democratica e il diritto al segreto” di Joana Masò che parte da un racconto di Blanchot, “L’idillio": “In una città dove regnava l’armonia ogni nuovo arrivato contraeva matrimonio con una ragazza della città e, una volta celebrate le nozze, moriva. Poi, verso sera, un familiare occupava il suo posto accanto alla giovane ragazza sorpresa d’accompagnare qualcuno che ormai non gli era sconosciuto.” La metafora è chiara: lo straniero è destinato ad essere sostituito con il familiare. Derrida, scrivendo della polis greca, denuncia il paradosso dello straniero che si vede obbligato a chiedere il diritto all’ospitalità usando una lingua che non è la sua, per farsi capire dovrà ricorrere ad una serie di codici che potrebbe usare correttamente solo se non fosse straniero. “Quando uno stato non rispetta il diritto al segreto, il diritto alla differenza o al sentirsi straniero, diviene minaccioso.” In sintonia anche la citazione di Mercè Rodoreda: “”Nel vedere che non gli rispondeva, mi chiese che gli spiegassi la mia vita (…) La mia vita è mia (…) se la spiego, fugge, la perdo...
Ci si ferma quindi nella post-metropoli studiata da Vittorio Gregotti, la città della rete e dei flussi , nella quale agli spazi pubblici si sostituiscono gli open interiors come il centro commerciale, lo stadio, le stazioni. Il viaggio prosegue nei paesaggi pietroburghesi di Silvia Burini, tra vie e palazzi scolpiti nell’aria, spazi onirici nei quali prende vita la statua che nel racconto di Puskin insegue Eugenio. Nelle lande carsiche de “La ripetizione” di Handke e nei quadri di Zoran Music esplorati da Simona Skrabec. Nelle città utopiche americane sotto la guida di Rosella Mamoli Zorzi. Luoghi perfetti dove le regole soffocano la libertà: New Harmony, Fruitsland, Herland, Walden, la città di Arcosanti di Paolo Soleri. La comunità ideale s’inventa anche in Rete: etopia. Altra tappa del cammino la riflessione “dietro il sipario” di Francesca Bisutti sulla città nel teatro con i suoi luoghi anonimi, privi di umanità, di riconoscimento, come la strada descritta da Miller in Morte di un commesso viaggiatore. Si approda infine alla Barcellona di Sagarra con Patrizio Rigobon e alla “città confessata come linguaggio” con Paola Mildonian: “Il nostro linguaggio – scrive in modo speculare Wittgenstein - può essere considerato come una vecchia città: un dedalo di stradine e di piazze, di case vecchie e nuove, e di case con parti aggiunte in tempi diversi; e il tutto circondato da una rete di nuovi sobborghi con strade diritte e regolari, e case uniformi."

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