sabato 30 ottobre 2010

La dea bendata

Nella cultura classica occidentale sono principalmente due i concetti di fortuna che dal mondo greco passano a quello romano: Tyche e Kairòs che diventano Fortuna e Occasio. Tyche, come racconta Pindaro, è irresponsabile delle sue decisioni e corre qua e là facendo rimbalzare una palla per significare che la sorte è cosa incerta. Per Platone invece Kairós è un tempo decisivo per il singolo: 
“Chi manca, oppure sfugge al suo kairós, distrugge se stesso: chi non agisce nel giusto momento, va in rovina”. Un rilievo del circa 160 d.C, conservato al Museo dell’Antichità di di Torino, rappresenta Kairòs con un ciuffo sulla fronte, per essere afferrato ma la nuca è calva perché quando si allontana non c’è modo di trattenerlo. La divinità, secondo quanto scrive Plutarco, fu introdotta nella Roma antica da Servio Tullio sesto re di Roma che edificò diversi templi in suo onore. Quello di Preneste (oggi Palestrina) era dedicato alla Fortuna Primigenia. Le fonti affermano che esistevano due statue della Dea Fortuna: una di bronzo dorato e una di marmo bianco nella posa di allattare Giove bambino, Grande Madre da cui tutti gli Dei provengono. La dea è per definizione cieca in quanto, come attesta Cicerone, ignora giustizia, misericordia ed è spesso causa di inimicizie e dissapri. Fortuna è anche divinità notturna legato all’andamento altalenante della luna crescente e calante. Luna/Fortuna che diventa in contesti diversi luna nel pozzo, ruota, timone, sfera (cerchio della luna ma anche la palla di Tyche) Nell’antichità non esistono immagini di una dea bendata. Bisognerà aspettare il Medioevo quando si sviluppa il tema della fortuna rappresentata come Kairòs con il lungo ciuffo di capelli sulla fronte da afferrare prima che sia troppo tardi. Il ciuffo si trasformerà, soprattutto tra Sei e Settecento, in una benda anche sulla base di una mutata concezione della sorte, vista come qualcosa che non coinvolge tutta la vita (si ricorda il capitolo ad essa dedicato da Machiavelli ne Il Principe) ma è più che altro legata alla possibilità di guadagnare molto. A livello artistico rimarrà un’immagine poco diffusa. Nell’ambito della mostra Dea Bendata, iconografia di un mito, in corso di svolgimento a Carpi, solo una stampa veneziana dell’inizio del Cinquecento di Anonimo ritrae tale soggetto. Risulta un’altra acquaforte di Dea bendata del 1624 del francese Pierre Brebiette. Essa appare inoltre in alcuni codici miniati, in una scultura della cattedrale di St. Etienne a Beauvais e in un affresco di scuola del Mantegna a Palazzo San Sebastiano a Mantova.
(Le informazioni contenute in questo articolo sono state raccolte e riscritte da La dea bendata. Lo sciamanesimo nell’antica Roma di Leonardo Magini, ed. Diabasis, Reggio Emilia, 2008, e dal catalogo della mostra Dea Fortuna, iconografia di un mito, a cura di Manuela Rossi, Elena Rossoni e Silvia Urbini, Palazzo del Pio, Carpi, 17 settembre 2010 – 9 gennaio 2011)

giovedì 28 ottobre 2010

Ma la poesia

Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino; noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana, e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria, sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento. Ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita.
John Keating ne L'attimo fuggente, regia di Peter Weir

martedì 26 ottobre 2010

Tre volte trenta


Giulia dormì poco quella notte: le emozioni si affastellavano nella mente, riscaldavano il suo corpo che ascoltava il respiro quieto accanto a lei. Temeva che i suoi pensieri facessero rumore mentre rincorrevano il desiderio di poter raccontare lei stessa quella storia, di carpirne i segreti più reconditi, e allora cercava di stare ferma il più possibile contando, ad ogni risveglio, le ore che mancavano al mattino. Lo voleva perfetto: niente doveva turbare quell’equilibrio, l’armonia che non aveva mai osato sognare. Aveva sempre pensato, forse a causa dei troppi libri letti, che la lettura di vecchie lettere dovesse essere un’attività per lo più crepuscolare, quando la sensazione di intimità e di silenzio si fa più concreta, avvolgente. Lì, però, in quel luogo sospeso in un tempo non definito, con la presenza rassicurante e stimolante di un sorriso comprensivo che solo ora conosceva davvero, ogni momento poteva essere vissuto indipendentemente dalla luce esterna, dai rumori che in quel piccolo paradiso erano per lo più un accompagnamento musicale allo svolgersi di quella piccola e speciale attività intellettuale. Cullandosi nella sicurezza del domani stimolante riuscì infine ad addormentarsi serena, rilassata in quel calore nuovo.
Il mattino aveva un’aria tranquilla e al tempo stesso foriera di grandi novità: aprendo gli occhi Giulia respirò piano, crogiolandosi nel tepore che la avvolgeva, iniziando piano a riassaporare le sensazioni della giornata e della notte precedenti. Le imposte lasciavano entrare un po’ di luce, quel tanto che bastava a riconoscere i contorni di quanto era nella stanza. Con un sorriso ancora incerto sbirciò la cornice con la fotografia sul comò e le parve che lo sguardo dei nonni non fosse meno bonario del giorno prima. Lottando un po’ con il desiderio di rimanere immobile e leggermente incosciente, poco alla volta percepì i rumori ed i profumi della casa, soprattutto i passi sulle scale accompagnati da un inconfondibile aroma di caffè. Ebbe la certezza che quello sarebbe stato uno dei risvegli migliori della sua vita quando vide il sorriso, dietro il piatto, improvvisatosi vassoio.
Isabella Gianelloni, Tre volte trenta, Piazza Editore

mercoledì 20 ottobre 2010

Castel del Monte


I paesi si susseguono come cani bianchi accoccolati lungo la strada, le radici degli alberi giocano con i sassi polverosi di terra. Castel Del Monte è un occhio solitario che guarda la pianura. Nel cortile ombra e luce. Le sue scale a chiocciola disorientano il visitatore, si carambola nelle stanze chiedendosi quali segreti celi la misteriosa fortezza a forma d’ottagono. Non è un labirinto eppure lo è, non si sa che direzione prendere fino a che da soli non ci si trova al centro del cortile e si è costretti ad alzare gli occhi verso il cielo.

martedì 19 ottobre 2010

Maliborghi


Nella terra di Andrea Zanzotto e Luciano Cecchinel, una piccola enclave poetica a sinistra del Piave, il poeta Luciano Caniato, nativo del Polesine ma coneglianese d’adozione, ha dato alla luce la sua ultima creatura e l’ha intitolata “Maliborghi” (ed. Il Ponte del Sale, pp.124), un viaggio in versi tra le città di un “Veneto barbaro, non di muschi e di nebbie, ma girone che lavora al fuoco d’ignoranze che non comprendono e non vogliono capire.” “Qui a Nordest c’è una sofferenza altissima – racconta Caniato, la gente si è dimenticata da dove viene, ha perso le sue radici contadine e non riesce a trovarne di nuove nel culto dell’immagine, degli schei, del cemento. Io stesso dopo cinquant’anni non sono riuscito ad “appaesarmi”, a capire ed essere capito fino in fondo da questa città.” I versi di Maliborghi non descrivono solo una realtà esterna ma sono anche la metafora di una condizione interiore capace di cogliere punte di dolore, ustioni dell’anima attraverso l’uso sapiente della parola, delle metafore, dei calembour in dialetto, italiano, latino. A Padova, scrive Caniato, ”Tirerò dritto, non guarderò nuvole di Giotto, negozi dell’oblio, strade dove il mio folle stare senza dare ombra accumulò penombra e rese buio.” Conegliano è “Fitta corona di spine. Piaghe di case, di case, di sputi di stopposo verde. Cactus di condomini a siepi sui contesti asfalti. Svaporato il bello bagnaocchi, leso il cielo delle quinte. Spari di motori. Centrati sonni.” Venezia “Persa in lagune storte e tersa in tanfi, colomba-tomba, Venéssia bonba.” “Mestre, interporto del nulla, latte di fanciulla che campiva. E ancora, sfinita dall’oblio, intrepida signora e crux.” I versi di Caniato combattono con un territorio esterno-interno di inquietudini: “Qui il paesaggio nihil, nada, andato. Fracassato il bello”. “Questo davvero perdersi in nuvoli edilizi. E fabbrichine e occhi di cantine. Quasi feline gatte in forme da rodeo. E vezzeggiati bamboli dài-dài ciapeghedéntro. Estdelnord fittopadano: ex demo, ex cristiano et iuvenes al confino d’un sé telefonino. Nonostante il mio ferirmi-friggere in poesia e il farmi in afasia un nido negli esili.” Un viaggio che pare sia stato scritto per specchiarsi o per cominciare nel solitario autoritratto che chiude la raccolta: “C’è chi nasce Po o Adige o Canale. Io sono nato fosso, macero, golena. Vuoi mettere specchiare cieli, contare i pesci del silenzio, avere erba intorno, stare fermi immobili, fare il morto, sentirsi cuore che batte, idea che spinge, essere storto o dritto a seconda che la rana dell’anima si muove, la libertà d’essere nessuno?”
(Luciano Caniato è nato a Pontecchio Polesine nel 1946. Poeta e scrittore, vive a Conegliano. Opere in poesia: E maledetto il frutto (1980); Pensierimi (1990); Nevi (1990); La siora nostra morte corporale (1992); Di memoria e di pietà (1998); Medajùn et alia (2002). Opere teatrali: Cardiogramma (1999); L’anima sui cop (2001); Cima nella neve (2010).)

sabato 16 ottobre 2010

Religione d’impresa

L’imprenditore o il manager chiede ai propri dipendenti e collaboratori non solo una prestazione lavorativa ma anche un’adesione sentimentale, personale, emotiva. Missione, appartenenza, credo, fedeltà, valori, sono termini tratti dal linguaggio religioso per motivare, gratificare, conquistare le risorse umane. Scrive Giampaolo Azzoni: “La mia ipotesi è che le religioni aziendali rappresentino una prova della celebre (e discussa) tesi risalente ad Émile Durkheim secondo la quale il modo religioso si trasforma, ma accompagna necessariamente l’organizzazione sociale: “Il y a […] dans la religion quelque chose d’éternel qui est destiné à survivre à tous les symboles particuliers dans lesquels la pensée religieuse s’est successivement enveloppée.”
“Quelle différence essentielle y a-t-il entre une assemblée de chrétiens célébrant les principales dates de la vie du Christ, ou de juifs fêtant soit la sortie d’Égypte soit la promulgation du décalogue, et une réunion de citoyens commémorant l’institution d’une nouvelle charte morale ou quelque grand événement de la vie nationale?”
Parlando di religioni aziendali, mi discosto però da Durkheim su un punto importante: Durkheim si riferiva alla società in quanto collettività generale, io invece mi riferisco alle aziende, alle società commerciali.” Religioni aziendali, intervento al Convegno di sociologia del diritto in onore di Silvana Castignone su Diritto/Diritti, Morale/Morali, Religione/Religioni, Università degli Studi di Cagliari 19-20 settembre 2003). C’è la necessità per l’impresa, sia essa un’azienda che produce sci o un giornale, un supermercato o una tv, di proporre ai suoi “fedeli” la gratificazione di aver scelto il miglior mondo aziendale possibile: famoso, internazionale, competitivo, verde, etico, innovativo, unico. La bandiera-brand protegge, rassicura, identifica. L’adesione si realizza attraverso riti collettivi, promesse, ricompense, abitudini, ricorrenze, comunicazioni, accessori, video, siti, socialnetwork, house organ, modi di vestire e architetture. “’Essere praticante di una religione aziendale – prosegue Azzoni - è un tutt’uno con l’essere parte attiva della propria comunità. In fondo, si potrebbe sostenere che nella post-modernità le religioni aziendali siano modalità residue per una pratica tradizionale in cui believing e belonging tornino a coincidere. (…). Ciò che è più rilevante per il tema delle religioni aziendali è che, secondo le ricerche di Collins / Porras, le “visionary companies”, come J&J con il suo Credo, hanno una peculiare cultura interna: una “cult-like culture”. Infatti, le “visionary companies” presenterebbero quattro caratteristiche comuni con i culti: ideologia sostenuta in modo fervente (“fervently held ideology”); indottrinamento (“indoctrination”); pressione alla conformità valoriale (“tightness of fit”); • convinzione di essere speciali e superiori (“elitism”). Poiché hanno “cult-like culture”, le “visionary companies”, in modo più simile ad una religione che alla media delle altre aziende, tracciano netti confini tra chi è “inside” e chi “outside” considerando l’appartenenza attiva come il meta-valore fondamentale, il cui possesso è più importante delle stesse competenze professionali”. Veniamo quindi ad alcuni esempi di credo. La Danone alla voce entusiasmo specifica: “I limiti non esistono, ci sono solo ostacoli da superare. Entusiasmo significa audacia, passione, voglia di superare. È il contrario del conformismo burocratico Significa desiderio e capacità di assumersi rischi, esplorare nuovi sentieri pieni di sorprese ed imprevisti; superare gli ostacoli. Implica libertà di spirito ed assenza di paure e pregiudizi. Passione. Sinonimo di convinzione, primordialità, indissolubilità, volontà, attrazione, superarsi, superare e raggiungere il culmine. È il desiderio fisico, ottimista ed entusiasta di crescere, di essere il primo.” Per Zuegg i comandamenti della Corporate Social Responsability sono: collaboratori uniti attraverso la condivisione della missione e visione aziendale; collaboratori che vivono con e per l’azienda; impegno e passione per il proprio lavoro; grande spirito di squadra ed entusiasmo; forte unità nelle decisioni, nel successo e nella sconfitta; competenza e innovazione; proattività ed energia nell’esprimere la propria opinione; considerazione dell’errore come una parte del miglioramento, non come un fattore per polemizzare o ammonire.” La religione aziendale (corporate religion) il più delle volte è diretta sia verso l’interno dell’azienda che verso l’esterno: “Clienti trasformati in fedeli, comportamenti di consumo analoghi ad un rito e dipendenti come officianti: caso esemplare di “corporate religion” è, secondo Kunde, quello dell’industria di motociclette Harley-Davidson” (ibidem). Un altro esempio è Diesel che recentemente ha lanciato la campagna Be stupid (nel senso di fresco, non conformista, sorprendente) accompagnandola con diversi claim diretti ad entrambe le categorie di credenti (collaboratori/clienti finali): you’ll create more, you’ll care less, you’ll eat better, you’ll make more friends, trust stupid, you’ll spend more time with your boss. A margine una breve sottolineatura sull’uso seduttivo della lingua inglese in ambito aziendale, una sorta di lingua sacra, un codice di appartenenza a un mondo evoluto, moderno (postmoderno), liquido, frattale, dinamico. In questa direzione tra i valori recentemente acquisiti da molti credi aziendali vi è la flessibilità che, da una prospettiva diversa, secondo Giovanni Leghissa “Porta con sé la marcata personalizzazione dei rapporti gerarchici all’interno dell’impresa. Favorita da tutte le procedure comunicative in cui sono in gioco fattori come la motivazione e l’adesione alla cultura (culto) dell’impresa, tale personalizzazione impedisce che la negoziazione del proprio ruolo avvenga in concomitanza con la definizione di spazi conflittuali misurabili con parametri esterni a quelli fatti valere dall’impresa stessa. (…) Imprenditore di se stesso, ciascun attore in seno all’impresa deve mostrare di sapersi posizionare entro la rete di relazioni che costituisce l’organizzazione, grazie alla gestione autonoma sia della differenza che lo separa da tutti gli altri attori, sia della differenza che separa le proprie prestazioni presenti da quelle passate.” (Formazione imprese controllo: ovvero la pervasività delle retoriche del management, in “aut aut” 326, 2005, pp. 19-36). Un altro valore “fluido” nelle aziende è la creatività, uno dei cardini delle politiche di Total Quality Management: “È di fondamentale rilievo per le imprese – scrivono Maria Colurcio e Cristina Mele – sviluppare approcci gestionali sistematici che consentano loro di stimolare la creatività all’interno della propria organizzazione e di valorizzarne i talenti al fine di ottenerne, nel medio lungo periodo, miglioramenti del clima e della soddisfazione interna e incremento delle performance di mercato attraverso lo sviluppo di proposizioni di valore in grado di sprigionare valore per il cliente. (...) I dipendenti rappresentano una tipologia di stakeholder dell’impresa particolarmente sensibile a valori differenti da quello esclusivamente economico.” (Intervento Quality management, creatività e talenti, al convegno Il marketing dei talenti, Roma, 5-6 ottobre 2007). In conclusione ogni azienda promuove il proprio credo e i propri valori in relazione ai suoi obiettivi perché “il lavoro -come scriveva Pascal Faucher già nella prima metà dell’Ottocento - è la provvidenza dei popoli moderni; ha per loro il ruolo della morale, riempie il vuoto delle credenze e passa per il principio di ogni bene”. Culti diversi all’interno di un’unica religione che John Maynard Keynes definiva così: “Capitalism is the extraordinary belief that the nastiest of men for the nastiest of motives will somehow work for the benefit of all.”

venerdì 15 ottobre 2010

Il volto e l'abito della verità

Nel suo saggio “Breve storia della menzogna” Jacques Derrida cita questo passo di Montaigne: "Se la menzogna, come la verità, avesse una sola faccia, saremmo in una condizione migliore. Di fatto prenderemmo per certo il contrario di quello che dicesse il bugiardo. Ma il rovescio della verità ha centomila aspetti e un campo indefinito.” (Montaigne, Des menteurs, in Essais, Libro I, Capitolo IX, Gallimard, Parigi, 1962, p. 38). Robert Musil propone un ragionamento analogo: “Non esiste una sola idea importante di cui la stupidità non abbia saputo servirsi, essa è pronta e versatile e può indossare tutti i vestiti della verità. La verità invece ha un abito solo e una sola strada, ed è sempre in svantaggio." (da: Der Mann ohne Eigenschaften, Berlin 1931, S.54). Forse esiste una stretta parentela tra menzogna e stupidità. Ma quando parliamo di una verità che ha una sola faccia, un solo abito, una sola strada, di che cosa stiamo parlando? Di un mondo fuori di noi determinabile, riconoscibile, calcolabile, di un senso etico innato, di una fede, di un io che comprende il tutto o di un’intuizione "indicibile" sul senso dell’esistenza? In L’arte di vivere senza verità. Perché oggi ha vinto il cinismo Michel Foucault prosegue il cammino: "Quando la verità è rimessa continuamente in discussione dallo stesso amore per la verità, qual è la forma di esistenza che meglio si accorda con questo continuo interrogarsi? Qual è la vita necessaria quando la verità non lo è più? Il vero principio del nichilismo non è: Dio non esiste, tutto è permesso. La sua formula è piuttosto una domanda: se devo confrontarmi con il pensiero che "niente è vero", come devo vivere? La difficoltà di definire il legame tra l’amore della verità e l´estetica dell'esistenza è al centro della cultura occidentale. Ma non mi preme tanto definire la storia della dottrina cinica, quanto quella dell'arte di esistere. In un Occidente che ha inventato tante verità diverse e che ha plasmato tante differenti arti di esistere, il cinismo serve a ricordarci che ben poca verità è indispensabile per chi voglia vivere veramente, e che ben poca vita è necessaria quando si tenga veramente alla verità." Anche in questo caso la parola verità rivela che la verità (a-letheia) tende a restar non-nascosta solo in parte. Riflessione che potrebbe estendersi al linguaggio, insufficiente nel dire il tutto di qualcosa. Sulla strada della non completezza Vladimir Jankélévitch: "Il volto della verità è sfumato, meno preciso di quello della menzogna. Se c'è del vero nella menzogna, benché non sia il vero, questa verità partitiva costituisce una testimonianza indiretta ma preziosa sulla verità totale. Come riconoscere la verità? La verità ha la sua maniera, anch'essa spesso contraddittoria fino all'assurdo. La mia conoscenza non è mai una conoscenza completa, totalmente adeguata. In questo senso il filosofo ci annuncia che essa è umile" (La menzogna e il malinteso, Raffaello cartina Editore, Milano, 2000). Più tumultuoso e destruens Nietzsche:"Che cos'è allora la verità? Un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che, migliorate poeticamente e retoricamente, sono trasposte e abbellite e che, dopo un lungo uso, sembrano a un popolo salde, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni che abbiamo dimenticato siano tali, metafore divenute consunte e svuotate della forza e dei sensi, monete che hanno perso la loro immagine e che vengono ora considerate solo come metallo non più come monete" (Über Wahrheit und Lüge
im außermoralischen Sinn
).

mercoledì 13 ottobre 2010

Farò della mia anima uno scrigno

Farò della mia anima uno scrigno per la tua anima,
del mio cuore una dimora per la tua bellezza,
del mio petto un sepolcro per le tue pene.
Ti amerò come le praterie amano la primavera,
e vivrò in te la vita di un fiore sotto i raggi del sole.
Canterò il tuo nome come la valle canta l'eco delle campane;
ascolterò il linguaggio della tua anima
come la spiaggia ascolta la storia delle onde.
Kahlil Gibran

domenica 3 ottobre 2010

Vite possibili

“Se le persone scarsamente sensibili e intelligenti tendono a far del male agli altri, le persone troppo sensibili e intelligenti tendono a fare del male a se stesse: chi è troppo sensibile e intelligente conosce i rischi che comporta la complessità di ciò che la vita sceglie per noi o ci consente di scegliere, è consapevole della pluralità di cui siamo fatti non solo con una natura doppia, ma tripla, quadrupla, con le mille ipotesi dell’esistenza. Questo è il problema di coloro che sentono troppo e capiscono troppo: che potremmo essere tante cose, ma la vita è una sola e ci obbliga essere solo una cosa, quella che gli altri pensano che noi siamo.” Queste parole di Antonio Tabucchi scritte nella prefazione di Fragments di Marilyn Monroe fanno venire in mente altre righe di Robert Musil ne L’uomo senza qualità: “Poteva soltanto dire che si sentiva assai più lontano che in gioventù da quello che aveva voluto essere, ammesso che lo avesse mai saputo. Con meravigliosa acutezza egli vedeva in sé- ad eccezione del saper guadagnare denaro, che non gli occorreva – tutte le capacità e qualità che il suo tempo apprezzava di più, ma aveva perduto la possibilità di applicarle; e poiché in fin dei conti, se ormai anche i giocatori di calcio e i cavalli hanno genio, soltanto l’uso che se ne fa può ancora salvarne il carattere particolare, decise di prendersi un anno di vacanza dalla vita per cercare un uso appropriato delle sue capacità”.

sabato 2 ottobre 2010

Odile Decq


Continua a far discutere la Biennale Architettura curata da Kazuyo Sejima. Nel terzo incontro dei sabati dell’architettura, svoltosi lo scorso fine settimana, è stata Odile Decq a lanciare il guanto e a lasciare attonito Dietmar Steiner, conduttore dell’incontro, che le chiedeva sorridendo un "amarcord" del 1996 quando sotto la direzione di Hans Hollein fu insignita del Leone d’Oro: “Non voglio parlare del passato – ha affermato la Decq che ha disegnato il Macro di Roma e insegna all’ Ecole Spéciale d’Architecture di Parigi. Vorrei che discutessimo di questa Biennale; secondo me a differenza della rassegna del 1996, che guardava al futuro anche nel titolo “L’architetto come sismografo” e alla quale erano stati invitati architetti poco noti fra cui Fuksas e la stessa Sejima a mostrare i loro progetti per il domani, oggi a Venezia visitiamo una mostra che guarda al presente. Va bene incontrarsi – Meet in architecture- ma cos’altro? Qui ci sono molti artisti ma l’artista non è coinvolto nel futuro del mondo, è preso da sé stesso, dalla sua arte.” Più cauto Hans Hollein, curatore della Biennale 1996: “L’unica cosa che posso confermare è che si tratta di una mostra legata al presente e non al futuro. Sul punto non vorrei rilasciare altre dichiarazioni”. Critiche che si aggiungono alla posizione di Paolo Portoghesi che nel precedente incontro dei Sabati dell’Architettura non usò mezzi termini: “L’architettura è qualcosa di molto diverso da ciò che viene rappresentato in questa mostra e dai media. L’affermazione individuale delle archistar produce contenitori, eventi, installazioni, che vorrebbero essere arte ma spesso non riescono ad essere né arte né architettura” In controtendenza Gianni Pettena, tra i fondatori dell’architettura radicale italiana: “Non sono d’accordo né con Portoghesi né con la Decq, ogni generazione ha il suo modo di esprimersi. Se a una persona piacciono le fughe di Bach forse non apprezzerà alla stessa maniera le composizioni di John Cage ma questo non implica che le une siano migliori delle altre. C’è un’architettura legata alla storia ma c’è anche un’architettura che non è legata solo alla funzione ma è pensiero fisicizzato, emozione trascritta in spazi.”