mercoledì 31 luglio 2013

Schiena contro schiena, a leggere un libro

"(…) Mi sono innamorata dell'ultima persona di cui avrei dovuto innamorarmi: eravamo fatti di una materia impossibile da legare. Non ha mai capito l' ABC della mia vita, non mi ha mai capita come essere umano, come persona. Ancora mi chiedo perché ho sopportato tanto, perché sono tornata sempre. Una notte mi chiamò, disperato, chiedendomi che andassi da lui. Io ero con qualcuno che mi amava e lo lasciai per andare a passare una notte con lui. E ricordo che l'unica cosa che abbiamo fatto è stato quella di metterci schiena contro schiena, a leggere un libro, lui il suo, io un altro. Al mattino dopo lo presi per la testa e gli dissi: “Sei un asino, Onetti, sei un cane, una bestia”. E me ne sono andata (…)."
Idea Vilariño

martedì 30 luglio 2013

L'eredità del bisturi


“Immagino che nel mio pennino ci sia un a vecchia eredità del bisturi. E in fin dei conti non è vero forse che sul bianco della carta traccio quegli stessi segni aggressivi che mio padre tracciava nel corpo degli altri quando operava? Ho trasformato il bisturi in pennino.  Sono passato dall’efficacia della guarigione all’inefficacia del libero discorso: ho sostituito alle cicatrici sul corpo i graffiti sulla carta; ho sostituito all’incancellabile della cicatrice il segno perfettamente cancellabile della scrittura. Forse dovrei andare ancora oltre. Forse il foglio di carta è per me il corpo degli altri.”
Michel Foucault, Il bel rischio, conversazione con Claude Bonnefroy, traduzione di Antonella Moscati, Editions de l’Ecole des hautes etudes en sciences sociales, Paris, 2013

venerdì 19 luglio 2013

L(u)ogoi - cap.2


Lo chiamavano Washington, non so perché, forse un parente in America, forse il nome di un transatlantico. Ogni tanto, verso sera, passeggiava nei campi attorno al paese e raccoglieva i sassi, poi li allineava uno sopra l’altro, costruiva piccoli muri, mosaici irregolari, sequenze magiche, tastiere minerali ognuna diversa dall’altra. C’era la storia del mondo in quei sassi, atomi di vecchie montagne che ora sonnecchiavano al centro della terra o in fondo al mare. Si fermava a guardarli Washington, ogni linea, ogni macchia, ogni spaccatura mostrava una storia, come le cortecce degli alberi, le nuvole, le foglie, come le mani delle persone, a saperle guardare. Un sasso venato di bianco aveva la forma d’un apostrofo, forse un feto, o una piazza con la strada che segue una curva. Nella piazza cominciava il corteo, una parata, una processione, da un lato il campanile con la croce, dall’altro una navicella spaziale, entrambe in partenza per universi poco visibili, la fede come un inchiostro simpatico a svelare l’origine, come l’apparizione di una madonna, il mistero della nascita, una scommessa inventata.
Un pane di granito lungo, un simbolo fallico, un pastorale, l’obiettivo di una cinepresa. Washington ricordò ad occhi chiusi una poesia. Non ogni verso, ma una ruggine di versi cigolava nel suo cervello: un cinema chiuso, una scalinata trasformata in teatro, un negozio di giochi erotici, una testa con due facce, Ulisse e Socrate, un branco di cervi.
Un disco irregolare, marrone sporco, tagliato da un solco scuro, una pozzanghera, di quelle che non se ne vanno mai, di quelle che amano i porti, i fiumi di pianura, le acque grigie della periferia. Per anni aspettano che il mondo cambi. E le pozzanghere tatuate sul terreno di passaggi stretti fra baracche e filo spinato, e nei ghetti dove gli uomini seppelliscono altri uomini. Carceri da liberare, finestre e porte da aprire, per ridere di nuovo come i cinesi al bar, e tuffarsi un caffè, cantare nelle osterie, suonare jazz.
Una selce incisa  da quelli che una volta forse erano fili d’erba. Una cortina fra il buio e la luce, il confine del bosco, una galleria tesa come un arco, un diaframma che si schiude. Alle volte bisogna bypassare, arrivare dall’altra parte, lì in riva al mare, dopo la galleria, oltre la luce svizzera che uccide le imperfezioni, per scoprire che nessun luogo t’appartiene davvero, davanti a un falò, succhiando il filtro della sigaretta spenta, la luna una parentesi tra le onde.
Una volta era argilla, ora è un mattone irregolare, una biblioteca di linee, una scultura di lenzuoli piegati, un braccio di ferro in cima a una montagna. Il segno ha disegnato una Guernica di damine e gatti, mandorle e gioielli. Washington per un attimo pensa di portarsela via, starebbe bene accanto alla teiera e ai timbri  della posta, sulla radio che non funziona più. Ma no, meglio qui, in mezzo agli altri sassi, in questa irregolare frontiera fra il campo di grano e il bosco degli ulivi.
Un quarzo arancione, quasi un’albicocca, la mano chiusa a pugno di un neonato, la cupola di un minareto mamelucco ad Ankara. Il canto del muezzin prima del tramonto, il profumo del tè e Khaldoun che racconta la sua storia. Un alfabeto di finestre lungo il cammino della vita, così strana e piena di volti che non conoscerai mai, e di altri che si ripetono quando non vorresti. Il Meltem soffia forte fra le case e porta il profumo dello stretto, gli sguardi delle ragazze di Istanbul.
E se fosse una stella caduta dal cielo, si chiese Washington, un ciottolo minuscolo, una rotellina d’arenaria, il bottone di una divisa, un girasole dell’era quaternaria. L’abaco delle forme assomigliava a quello delle parole, un gioco di formule, di convenzioni. Il disegno di un ingranaggio. Ma dove nasce la forza che lo muove? Lo spirito. L’origine. Una linea, una lacuna, uno spartito di asterischi, di contorni da riempire. Una catena di stelle, di piccole torri viste dall’alto, un tessuto di laghi e asterischi, gli incroci di una città.
Washington si sedette sul muretto e guardò a est, verso il mare. Lo immaginava dietro le colline. Lo respirava nell’onda fresca della sera. Ognuno di noi ha un luogo verso il quale torna.
Venerdì 12 e sabato 13 luglio, a Vittorio Veneto, insieme a Claudio Bertorelli, Paolo Palma, Silvia Basso, Nico Covre, Giuliano Chimenti, Donatello D’Angelo, Fabio Demitri, Daniele Frattolin, Grigeacque, Sarah Mazzetti, Ilaria Roglieri, per il laboratorio di grafica LAB_PARADE. 
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lunedì 15 luglio 2013

Il tempo infinito dell'arte

"Non c'è domanda più urgente, per l'essere umano, di quella che interroga il tempo e la sua natura. L'arte è capace, forse ancor più della filosofia, di trovare sempre nuove domande su nuove idee di tempo. Dai dipinti di Giorgio De Chirico, alla fotografia, arte temporale per eccellenza che - come nota Roland Barthes  - non dice nulla sull'oggetto rappresentato, ma dice molto sul fatto che esso "è stato" e sul preciso momento in cui è stato. Fino all'installazione The Clock, di Christina Marclay, che ha vinto la 54a edizione della Biennale di Venezia: un filmato di 24 ore, nato dal montaggio di centinaia di spezzoni di film famosi, in cui ogni minuto viene inquadrato in un orologio che indica l'ora, in perfetta sincronia con il tempo reale dello spettatore. Si tratta di un grande omaggio al cinema, l'arte che più di ogni altra ha scardinato  il tempo, liberandolo, come afferma Gilles Deleuze, dalla mera narrazione per restituirlo alla sua vera dimensione, quella interiore, quella infinitamente estendibile della coscienza. (...)
L'arte contemporanea è dunque capace di capovolgere letteralmente il tempo, di realizzare quella che Rella definisce, nella sua bella introduzione ispirata all'estetica di Walter Benjamin, "la rottura del tempo lineare" progressivo e unidirezionale: rottura dalla quale scaturisce un risveglio improvviso della coscienza dello spettatore, lo choc di un'immagine che balena improvvisa e, provenendo dal passato o dal futuro, è capace di liberare. Come accade nella scena finale del romanzo di Don DeLillo Cosmopolis, in cui il video-orologio del protagonista rappresenta, con un anticipo di qualche istante, la sua morte. O come avviene nella musica di Gérard Grisey, un autore che riesce a "spazializzare" la melodia, contraddicendo l'idea che la musica sia solo incarnazione di un tempo astratto senza luogo: nei suoi Quatre chantes pour franchir le souil, infatti, egli materializza musicalmente la "soglia" che determina il passaggio dalla vita alla morte. Nella megalopoli contemporanea, poi, l'architettura è invitata, laddove possibile, a contrastare la grande fobia che scaturisce dalla labirintica assenza di un centro: "In essa - così Hans Sedlmayr - il tempo interiore del soggetto si incrocia e combina con ritmi pubblici e privati modellandosi sulla metropoli; un tempo scandito da accelerazioni, sospensioni, fughe in avanti e indietro". L'arte dei nuovi media, infine, contrasta  criticamente l'onnipotenza mediatica della postmodernità che dissolve  il tempo in un eterno presente, inducendo una sorta di "cronologia" che azzera la profondità storica per ridurre la realtà a fittizio surrogato di un vasto immaginario pubblicitario. Interrogarsi sul tempo è uno  degli esercizi filosofici più difficili. Forse, suggerisce DeLillo, l'uomo contemporaneo ha bisogno di una "nuova teoria del tempo". O forse ha bisogno solo di tornare a esperimentare dentro di sé - come ai tempi di Seneca e Agostino - le infinite forme del tempo. In questo l'arte può aiutarlo."
Anna Li Vigni in Il tempo infinito dell'arte

martedì 9 luglio 2013

L(u)ogoi - cap. 1

L’appuntamento per un corteo che non c’è ancora è per le cinque, vicino alla fontana. Arrivo fra tre minuti sono in macchina, documentiamo tutto. Lo schermo del cellulare riflette gli edifici di Piazza Giovanni Paolo I a Vittorio Veneto. Alle spalle la biblioteca civica, su un lato il seminario e la torre per guardare le stelle, il duomo dove parlò Albino Luciani, e il Museo della Battaglia in restauro, sulle impalcature la riproduzione gigante di una cartolina. Teorie infinite di soldati, qualche foto, qualche sbiadito e tremolante filmato. Città caleidoscopicaVittorio Veneto, piena di soglie, di passage e negozi chiusi. Se uno scrittore algerino scrivesse un dialogo sui migranti, questo dialogo potrebbe avvenire dalla torre al campanile. E dell’edicola si potrebbero i neorealistici camei in via d’estinzione che la frequentano, e anche di questa galleria d’arte invisibile sotto i portici.

lunedì 8 luglio 2013

Non smette di piovere - Diario di un festival




"Una pioggia leggera e tenace bagna i masegni di Piazza San Marco in questo mercoledì di giugno. La bandiera italiana e quella marocchina sventolano insieme per l’apertura del primo Festival italo-marocchino. Sotto i portici delle Procuratie un viavai di persone, l’impazienza prima che si apra il sipario, la speranza che smetta di piovere. I gruppi in costume accordano gli strumenti, accennano qualche motivo tradizionale."
"Il profumo del tè alla menta conduce attraverso il piccolo suk creato all’ombra delle mura: le teiere in alpaca cesellate a mano con il bulino, le scacchiere di cedro intagliate nelle botteghe di Fes, gli specchi e i piatti in rame, i portagioie abbelliti da intarsi geometrici, le vecchie lanterne di Rabat e i tappeti delle regioni dell’Atlante impreziositi da disegni di piante, erbe, colori dei paesaggi di provenienza, e simboli come l’occhio del profeta, la mano di Fatima, la kasba, le dune. Figure di donne compongono la trama aiutandosi con un legno d’olivo. Una volta, era tradizione che prima del matrimonio le ragazze regalassero al futuro marito il kilim creato con le loro mani, era una lettera d’amore alla quale il corteggiato doveva rispondere senza poter vedere la ragazza.
Sotto la tenda berbera Hasan prepara il tè alla menta, un rito antico che in attimo conduce la fantasia a ripercorrere le piste delle carovane nel deserto e a immaginare notti a tu per tu con le stelle."
"I terrazzi dei condomini sembrano tastiere di pianoforte grigie e bianche, come le macchine allineate nei parcheggi intorno all’auditorium Modigliani. È l’auditorium del liceo artistico di Padova intitolato a Modì, il pittore dei colli lunghi. Il nome evoca atmosfere parigine e con esse i fermenti di una cultura artistica aperta all’incontro, alle contaminazioni."
Il diario del primo festival italomarocchino è on line all'indirizzo http://www.slideshare.net/AntonOrefice/non-smette-di-piovere






mercoledì 3 luglio 2013

Ogni cosa ne era un'altra


“Da circa mezzo secolo si serviva della mente come di un cuneo per allargare, meglio che poteva, gli interstizi  del muro che da ogni parte ci stringe. Le fessure si dilatavano, o piuttosto sembrava che il muro perdesse da sé la propria compattezza, senza tuttavia cessare d’essere denso, quasi muraglia di fumo anziché di pietra. Gli oggetti non adempivano più alla funzione di accessori utili. Come un materasso perde il crine , lasciavano sfuggire la loro sostanza. Una foresta riempiva la camera; lo sgabello, misurato sulla distanza che separa dal suolo il culo di un uomo, il tavolo che serve a scrivere o a mangiare, questa porta che fa comunicare un cubo d’aria tra pareti con un cubo  d’aria attiguo, perdevano la ragion d’essere che un artigiano aveva dato loro per ridivenire tronchi o rami scorticati come i San Bartolomei dei quadri di chiesa, carichi di foglie spettrali e d’uccelli invisibili, ancora scricchiolanti per tempeste da lungo tempo placate e su cui la pialla aveva lasciato qua e là il grumo della linfa. La coperta e quell’abito smesso appeso a un chiodo mandavano odore di unto, di latte e di sangue. Le scarpe che sbadigliavano  sull’orlo del letto si erano mosse al respiro di un bue disteso sull’erba, e un maiale dissanguato urlava nel grasso di cui il ciabattino le aveva spalmate. La morte violenta era dappertutto, come in una macelleria o in un recinto patibolare. Un’oca sgozzata schiamazzava nella penna che sarebbe servita a tracciare su vecchi cenci idee credute degne di durare per sempre. Ogni cosa ne era un’altra: la camicia che gli lavavano le suore Bernardine era un campo di lino  più azzurro del cielo e insieme un mucchio di fibre in macerazione  sul fondo d’un canale. I fiorini che teneva in tasca con l’effige del defunto imperatore Carlo erano stati scambiati, dati e rubati, pesati e consumati mille volte prima che per un momento li avesse creduti suoi, ma quelle giravolte tra le mani avare o prodighe erano brevi se paragonate all’inerte durata del metallo stesso, istillato nelle vene della terra prima che Adamo fosse vissuto. I muri di mattoni si dissolvevano nel fango che sarebbero tornati ad essere un giorno...”
Marguerite Yourcenar, L’opera al nero, Feltrinelli, Milano, 1986