L’appuntamento per un corteo che non c’è ancora è per le cinque, vicino alla fontana. Arrivo fra tre minuti sono in macchina, documentiamo tutto. Lo schermo del cellulare riflette gli edifici di Piazza Giovanni Paolo I a Vittorio Veneto. Alle spalle la biblioteca civica, su un lato il seminario e la torre per guardare le stelle, il duomo dove parlò Albino Luciani, e il Museo della Battaglia in restauro, sulle impalcature la riproduzione gigante di una cartolina. Teorie infinite di soldati, qualche foto, qualche sbiadito e tremolante filmato. Città caleidoscopicaVittorio Veneto, piena di soglie, di passage e negozi chiusi. Se uno scrittore algerino scrivesse un dialogo sui migranti, questo dialogo potrebbe avvenire dalla torre al campanile. E dell’edicola si potrebbero i neorealistici camei in via d’estinzione che la frequentano, e anche di questa galleria d’arte invisibile sotto i portici.
A proposito state contando i passi. E qui dove si va? al circolo degli anziani, giocano a carte dietro una veranda come fiori in attesa dell’acqua. Quella è la casa di Giorgio Franceschini, fu tra i fondatori del Mibac, in questa villa la sala convegno degli ufficiali, lì la vedi quella bianca, ci dormì Garibaldi e qui, esattamente qui, non c’era una piazza c’era la loggia del mercato. Questo era il teatro sociale: fu svuotato negli anni Quaranta per costruire il cinema. La cosa interessante è la facciata curva, il residuo di una traccia viaria, di una strada che non fu mai realizzata perché gli espropri non furono concessi. Di fronte al cinema la chiesa, in mezzo la piazza, luoghi d’incontro con fedi diverse. La posta in gioco è incontrarsi lungo la carovana, un lungo testo per riscrivere la città, un metrò fantastico, un alveare di sguardi. Fermi in via Manin, come un convoglio in una gola, nello sfrecciare anonimo di un senso unico, sbirciando fra negozi abbandonati e finestre chiuse. I sensi unici trasformano, la gente corre monodirezionalmente come spinta da una mano invisibile. E non se ne accorge che non c’è più nessuno al Ghetto ebraico. Per terra la ghiaia di Comodamente 2007 è ancora lì. Immagino i passi di chi visto per la prima volta questo luogo straordinario, divenuto margine intra moenia, con i vetri rotti, i colori nerastri di piogge dimenticate e omissioni. Se disegnassimo una mappa di chi camminò in quelle stanze, disegneremmo un mappamondo zeppo di punti, una biblioteca infinita di storie, un mare di volti che riemergono dal silenzio. Più avanti la processione passerà accanto a una scala in rosso la secca, trampolino per una ferrovia solitaria, una scala nel nulla come lo sono alcune decisioni politiche che scambiano i binari morti per parcheggi e costruiscono parcheggi che sono binari morti. Era la scala che portava a Villa Coletti, agli stabilimenti termali frequentati dai ricchi borghesi dell’Impero asburgico. E li c’è anche un passaggio segreto, da piccoli ci divertivamo ad attraversarlo nel buio. Si sale in curva, in galleria, esofago urbano che acoglierà musica, luci, parole. Avanti in salita lungo villa San Gottardo e il pozzo piezometrico abbandonato davanti alla stazione dei treni. Più in là lo scalo dove un tempo arrivavano i camion dell’Italcementi e la donna grassa urlava come una pazza contro la modernità. Giganteschi pneumatici schiacciavano i suoi ingenui miraggi, e un ragazzo lungo il viale vendeva fumetti usati. Qui, forse, domani, un ponte abitato, nuovi incontri senza burqa e lingue ciclopedonali verso il passo dei contadini. E passaggi mobili, come in guerra, per il corteo. Una mitragliata del 31 ottobre del 1918 a Porta della Muda, c’è ancora. Ce la faranno i mezzi e gli uomini a passare, a non inciampare sui binari? La notte, una porta dei sogni da oltrepassare, una via nell’aria delle cime, un’autoproduzione notturna di sé insonni, pattuglie d’inchiostri che non si fermano. Passi, passi, quanti passi abbiamo fatto?
(Note da una passeggiata a Vittorio Veneto, da Ceneda a Serravalle, in compagnia di Claudio Bertorelli, Paola Silvestrin, Nico Covre). - See more at: www.comodamente.it
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