Del titolo è questo miscuglio tra una conchiglia e una domestica che ti fa venir voglia di capire. Anche perché le vongole le associ agli spaghetti un po’ meno ai filippini. E poi non ci sarà di mezzo il solito razzismo? Allora l’incontro si intitolava così: “L’arrivo della vongola filippina nella Laguna di Venezia: una questione di adattamento biologico e sociale”. In che senso, c’è stata un’invasione di pescatori filippini, di vongole filippine e non ce ne siamo accorti? E poi che cos’ hanno di diverso le vongole filippine dalle nostre? Il permesso di soggiorno c’entra qualcosa? Basta leggere un po’ meglio la locandina della conferenza organizzata dal Dipartimento di studi sull’Asia e sull’Africa Mediterranea, relatrice Florence Menez. No, non è spagnola, è un’etnologa bretone, di Brest, che vive a Parigi e lavora alla Bibliothèque Nationale de France. Già, ma che c’entra con Venezia? Merito dell’Erasmus: nel 1999, seguendo le indicazioni del suo professore Sergio Dalla Bernardina, di origine veneta, condusse una ricerca sull’invasione-sparizione delle alghe, fenomeno risalente agli anni Ottanta: qualcuno si ricorda fu addirittura chiuso l’aeroporto di Venezia a causa di nuvole di chironomidi, piccoli insetti neri simili a mosche, altri giurano che le alghe annerivano l’argento e che i chironomidi schiacciati tra le porte dei vaporetti producessero un olio lubrificante. C’è chi non esclude che fosse l’epilogo di un attacco chimico. Florence in quel periodo s’imbatté in un’altra storia interessante: l’invasione della vongola filippina. Così, dopo il saggio sulla sparizione delle alghe La disparition des algues dans la lagune de Venise. Recit mythique et histoire (presque) vraie, dal 2009 svolge una ricerca di dottorato sul tema, scandagliando verità e pseudoverità di un fenomeno con diverse implicazioni sociali ed economiche. Basti pensare che in un decennio il raccolto annuo di vongole è passato da 4 a 40.000 tonnellate. Incontro Florence Menez in un bar veneziano con pochi tavolini e grandi vetrate. Cominciamo dal nome vongola filippina che deriva dalla definizione scientifica tapes philippinarum. E da un esperimento che è alla origine del fenomeno. Nel 1983 l’ente Cospav per rendere più redditizia la pesca, che stava attraversando un momento di crisi, avviò l’ allevamento di tapes philippinarum vicino a Chioggia, come fatto in seguito da altri biologi a Scardovari, a Goro e a Marano Lagunare. Una prassi che non violava la legge in quanto all’epoca non era vietato importare specie alloctone. Sennoché l’esperimento sfuggì di mano ai suoi promotori perché il mollusco trovò un habitat estremamente favorevole alla sua diffusione. Nacquero così le prime voci sul fenomeno: secondo alcuni la filippina sarebbe arrivata in Laguna trasportata dalle ancore delle grandi navi mercantili e da crociera, nascosta come un’immigrato clandestino sul fondo delle navi, secondo altri sarebbe stata lanciata da un fantomatico elicottero. In ogni caso sulla vongola filippina gli affari fiorirono. Nel 2000 si stimava che un pescatore riuscisse a guadagnare fino a 400.000 euro all’anno. Dal punto di vista sociale si creò un conflitto: “Un fenomeno in cui non si può distinguere fra pescatori di nuova generazione abusivi e pescatori tradizionali con le carte in regola – spiega Menez. “Buoni” e “cattivi” si mescolano: alcuni nuovi pescatori si sono messi in regola, altri no; d’altra parte, pescatori con una tradizione alle spalle si sono comportati in modo irregolare raccogliendo le vongole di notte o al di fuori dell’area di concessione. La corsa all’oro ha coinvolto intere generazioni di giovani che invece di dedicarsi agli studi si sono gettati nel business della vongola. Al mercato e al ristorante però non chiedete della vongola filippina, suggerisce Florence Menez: “Non si chiama più così: le hanno cambiato nome perché una cosa buona da mangiare deve essere prima di tutto buona da pensare, come teorizzò l’antropologo Lévi Strauss e come sa bene la pubblicità commerciale. Se chiamo un vino Rosso veronese, per esempio, avrà più appeal di un semplice Merlot. Il nome comune della vongola filippina è vongola verace, per quello scientifico si è optato per il meno compromettente tapes semi-decussatus che la distingue dal tapes decussatus, la vongola autoctona ormai quasi introvabile.” Infine, un ultimo interrogativo, ma da dove vengono le vongole “veraci” che compriamo al mercato o che mangiamo al ristorante? C’è l’imbarazzo della scelta: allevamenti concessi dal Magistrato alle Acque, oppure zone precluse o inquinate, dal fango rosso vicino all’arco di Porto Marghera, come raccontato ne la La fabbrica dei veleni di Felice Casson o in Porto Marghera e la Laguna di Venezia di Fabrizio Fabbri che scrive: “Ogni vongola (raccolta a Forte Marghera ndr) portava con sé un coktail di composti che, una volta ingeriti ed entrati in circolo nel corpo umano, potevano provocare ingenti danni alla salute.” Può anche succedere che le vongole delle zone industriali siano “bonificate” prima della vendita in allevamenti “safe”. Insomma meglio non saperlo, meglio ripetersi che sono veraci come insegna Lévi Strauss. (la foto è tratta dal sito www.ilmaredamare.com)
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sabato 25 febbraio 2012
La vongola filippina: una “strana” invasione
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