mercoledì 3 luglio 2013

Ogni cosa ne era un'altra


“Da circa mezzo secolo si serviva della mente come di un cuneo per allargare, meglio che poteva, gli interstizi  del muro che da ogni parte ci stringe. Le fessure si dilatavano, o piuttosto sembrava che il muro perdesse da sé la propria compattezza, senza tuttavia cessare d’essere denso, quasi muraglia di fumo anziché di pietra. Gli oggetti non adempivano più alla funzione di accessori utili. Come un materasso perde il crine , lasciavano sfuggire la loro sostanza. Una foresta riempiva la camera; lo sgabello, misurato sulla distanza che separa dal suolo il culo di un uomo, il tavolo che serve a scrivere o a mangiare, questa porta che fa comunicare un cubo d’aria tra pareti con un cubo  d’aria attiguo, perdevano la ragion d’essere che un artigiano aveva dato loro per ridivenire tronchi o rami scorticati come i San Bartolomei dei quadri di chiesa, carichi di foglie spettrali e d’uccelli invisibili, ancora scricchiolanti per tempeste da lungo tempo placate e su cui la pialla aveva lasciato qua e là il grumo della linfa. La coperta e quell’abito smesso appeso a un chiodo mandavano odore di unto, di latte e di sangue. Le scarpe che sbadigliavano  sull’orlo del letto si erano mosse al respiro di un bue disteso sull’erba, e un maiale dissanguato urlava nel grasso di cui il ciabattino le aveva spalmate. La morte violenta era dappertutto, come in una macelleria o in un recinto patibolare. Un’oca sgozzata schiamazzava nella penna che sarebbe servita a tracciare su vecchi cenci idee credute degne di durare per sempre. Ogni cosa ne era un’altra: la camicia che gli lavavano le suore Bernardine era un campo di lino  più azzurro del cielo e insieme un mucchio di fibre in macerazione  sul fondo d’un canale. I fiorini che teneva in tasca con l’effige del defunto imperatore Carlo erano stati scambiati, dati e rubati, pesati e consumati mille volte prima che per un momento li avesse creduti suoi, ma quelle giravolte tra le mani avare o prodighe erano brevi se paragonate all’inerte durata del metallo stesso, istillato nelle vene della terra prima che Adamo fosse vissuto. I muri di mattoni si dissolvevano nel fango che sarebbero tornati ad essere un giorno...”
Marguerite Yourcenar, L’opera al nero, Feltrinelli, Milano, 1986

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