venerdì 19 luglio 2013

L(u)ogoi - cap.2


Lo chiamavano Washington, non so perché, forse un parente in America, forse il nome di un transatlantico. Ogni tanto, verso sera, passeggiava nei campi attorno al paese e raccoglieva i sassi, poi li allineava uno sopra l’altro, costruiva piccoli muri, mosaici irregolari, sequenze magiche, tastiere minerali ognuna diversa dall’altra. C’era la storia del mondo in quei sassi, atomi di vecchie montagne che ora sonnecchiavano al centro della terra o in fondo al mare. Si fermava a guardarli Washington, ogni linea, ogni macchia, ogni spaccatura mostrava una storia, come le cortecce degli alberi, le nuvole, le foglie, come le mani delle persone, a saperle guardare. Un sasso venato di bianco aveva la forma d’un apostrofo, forse un feto, o una piazza con la strada che segue una curva. Nella piazza cominciava il corteo, una parata, una processione, da un lato il campanile con la croce, dall’altro una navicella spaziale, entrambe in partenza per universi poco visibili, la fede come un inchiostro simpatico a svelare l’origine, come l’apparizione di una madonna, il mistero della nascita, una scommessa inventata.
Un pane di granito lungo, un simbolo fallico, un pastorale, l’obiettivo di una cinepresa. Washington ricordò ad occhi chiusi una poesia. Non ogni verso, ma una ruggine di versi cigolava nel suo cervello: un cinema chiuso, una scalinata trasformata in teatro, un negozio di giochi erotici, una testa con due facce, Ulisse e Socrate, un branco di cervi.
Un disco irregolare, marrone sporco, tagliato da un solco scuro, una pozzanghera, di quelle che non se ne vanno mai, di quelle che amano i porti, i fiumi di pianura, le acque grigie della periferia. Per anni aspettano che il mondo cambi. E le pozzanghere tatuate sul terreno di passaggi stretti fra baracche e filo spinato, e nei ghetti dove gli uomini seppelliscono altri uomini. Carceri da liberare, finestre e porte da aprire, per ridere di nuovo come i cinesi al bar, e tuffarsi un caffè, cantare nelle osterie, suonare jazz.
Una selce incisa  da quelli che una volta forse erano fili d’erba. Una cortina fra il buio e la luce, il confine del bosco, una galleria tesa come un arco, un diaframma che si schiude. Alle volte bisogna bypassare, arrivare dall’altra parte, lì in riva al mare, dopo la galleria, oltre la luce svizzera che uccide le imperfezioni, per scoprire che nessun luogo t’appartiene davvero, davanti a un falò, succhiando il filtro della sigaretta spenta, la luna una parentesi tra le onde.
Una volta era argilla, ora è un mattone irregolare, una biblioteca di linee, una scultura di lenzuoli piegati, un braccio di ferro in cima a una montagna. Il segno ha disegnato una Guernica di damine e gatti, mandorle e gioielli. Washington per un attimo pensa di portarsela via, starebbe bene accanto alla teiera e ai timbri  della posta, sulla radio che non funziona più. Ma no, meglio qui, in mezzo agli altri sassi, in questa irregolare frontiera fra il campo di grano e il bosco degli ulivi.
Un quarzo arancione, quasi un’albicocca, la mano chiusa a pugno di un neonato, la cupola di un minareto mamelucco ad Ankara. Il canto del muezzin prima del tramonto, il profumo del tè e Khaldoun che racconta la sua storia. Un alfabeto di finestre lungo il cammino della vita, così strana e piena di volti che non conoscerai mai, e di altri che si ripetono quando non vorresti. Il Meltem soffia forte fra le case e porta il profumo dello stretto, gli sguardi delle ragazze di Istanbul.
E se fosse una stella caduta dal cielo, si chiese Washington, un ciottolo minuscolo, una rotellina d’arenaria, il bottone di una divisa, un girasole dell’era quaternaria. L’abaco delle forme assomigliava a quello delle parole, un gioco di formule, di convenzioni. Il disegno di un ingranaggio. Ma dove nasce la forza che lo muove? Lo spirito. L’origine. Una linea, una lacuna, uno spartito di asterischi, di contorni da riempire. Una catena di stelle, di piccole torri viste dall’alto, un tessuto di laghi e asterischi, gli incroci di una città.
Washington si sedette sul muretto e guardò a est, verso il mare. Lo immaginava dietro le colline. Lo respirava nell’onda fresca della sera. Ognuno di noi ha un luogo verso il quale torna.
Venerdì 12 e sabato 13 luglio, a Vittorio Veneto, insieme a Claudio Bertorelli, Paolo Palma, Silvia Basso, Nico Covre, Giuliano Chimenti, Donatello D’Angelo, Fabio Demitri, Daniele Frattolin, Grigeacque, Sarah Mazzetti, Ilaria Roglieri, per il laboratorio di grafica LAB_PARADE. 
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