Si dice spesso che quando i filosofi iniziano un corso di filosofia iniziano con la domanda: Cosa è? La questione dell’essere è la domanda fondante della filosofia. Dicono che tutto è cominciato in Grecia quando i filosofi si chiesero “ti esti” cosa è questo? Qual è il senso di questo o quello e cosa vuol dire la parola essere? Ma la domanda sulla domanda - non l’ho inventata essa viene dalle mie letture - si può dividere in due parti: la forma domandante – come indicato da Heidegger - è la forma privilegiata della filosofia? Pensare significa veramente porre domande? Non ci potrebbe essere, prima della domanda, un movimento di pensiero più radicale, più antico, più profondo, che non chiede ma afferma? Questa è la prima domanda sulla domanda. Inoltre, anche ammettendo che la prima domanda della filosofia riguardi l’Essere, non c’è qualcosa di presupposto nel modo in cui intendiamo l’Essere? Heidegger era sospettoso rispetto ai filosofi greci che privilegiavano il participio presente dell’essere, la presenza dell’essere...Non appena uno sospetta di questa presenza del presente, si chiede se non ci siano delle serie conseguenze derivanti da questo desiderio di interpretare l’Essere come presenza? Questa è la domanda che Heidegger ha posto alla sua maniera e che io ho provato a reinscrivere, a ricontestualizzare in un differente terreno o corpus, in testi che Heidegger non ha interrogato. Tutto quello che ho scritto sulla traccia nella scrittura è proprio la condizione non presente della presenza. Per avere accesso all’Essere come presenza è necessaria l’esperienza di quella che io chiamo traccia. Il rapporto con qualcos’altro, con l’Altro. Con l’altro nel passato, con l’altro nel futuro, con l’Altro in generale. Ma questo “con l’altro” non appare come il presente della presenza. La traccia, nel modo in cui l’ho elaborata, mette in dubbio sia la forma domandante del pensiero sia l’autorità della presenza del presente. Ho gran rispetto per la domanda, non sono contrario ad essa, perché è la condizione della critica e della decopstruzione. Ma cerco di capire cosa viene prima della domanda, qual è la condizione della domanda stessa. Per porre una domanda devi rivolgerti a qualcuno. Anche le domande innocenti presuppongono un’affermazione precedente. Io mi rivolgo a qualcun altro dicendo che è meglio che parliamo piuttosto che non parliamo, che è meglio rapportarsi all’altro piuttosto che non farlo, e dunque affermo una specie di sì “anteriore”, anteriore tra virgolette perché non è una questione di tempo, ma piuttosto qualcosa che precede la domanda nell’ordine dei pensieri. Una volta che la domanda è interrogata in questo modo, si pone la questione del presente collegata al mio lavoro sulla traccia, sulla scrittura; non solo della scrittura che uno fa sulla carta o sul computer, in ogni cosa c’è traccia, in tutto c’è l’esperienza di un rinvio a qualcosa d’altro, di un rinvio all’Altro, all’Essere altro nel presente, passato, futuro, a una differente temporalità più vecchia del passato e oltre il futuro. Io cerco di pensare a un passato o a un avvenire che non siano un presente modificato, cioè né un futuro presente o un passato presente, ma che siano una esperienza differente riguardo al passato o al futuro, un’esperienza che può farsi spazio solo attraverso il rapporto con l’Altro, con gli Altri.
(Liberamente da un’intervista a Jacques Derrida)
Nessun commento:
Posta un commento