mercoledì 11 settembre 2013

Totem e tabu

Le questioni sono complicate. Non c’è dubbio. Sul tavolo un libro, Hannsjörg Voth Zeichen der Erinnerung, Dam, Frankfurt am Main, 1987. Il luogo è bello non c’è dubbio, una vigna di Alice con rane blu, robot gentili e dipladenie bianche. E la questione del totem va capita non c’è dubbio, il campanile in fondo che cos’è, e la croce, luogo della decisione ancor prima che sofferenza, a meno che ogni decisione non sia anche sofferenza, crocicchio di Edipo. E anche la scala piantata nel terreno, sentiero utopistico verso il cielo, una Himmelsleiter (scala del cielo). “Persino Giacobbe nel Vecchio Testamento sognò di una scala che toccava il cielo, e su di essa gli angeli che andavano su e giù”.
L’elemento totemico ha a che fare con il sacro, con il temenos, il recinto che nell’antichità era formato da pietre, pali o da alberi con la chioma tagliata. Il sacro non è il religioso, ma è legato alla condizione originaria essenziale alla formazione di una comunità. Una nascita che richiede il sacrificio di una vittima, un capro espiatorio che unifichi. Sul tema Freud ha scritto Totem e tabù nel quale racconta che nella notte dei tempi un padre governava le pulsioni dei maschi, ma una notte questi decisero di ucciderlo e di trasformarlo in una divinità, in un totem attorno al quale si riuniranno ogni anno per ricordarne la morte, il tabu. “Tabù è una parola polinesiana la cui traduzione riserva qualche difficoltà, perché non è un concetto che ci è proprio. Per gli  antichi romani era definito dalla parola sacer, dai greci ayos, dagli ebreiKodausch. Per noi la parola Tabu assume significati contraddittori, da un lato è sinonimo di santo, benedetto, dall’altro di sinistro, pericoloso, vietato, impuro.” (S.Freud, Totem e Tabu). L’idea di un centro attorno al quale riunirsi, dell’onfalon, l’ombelico del mondo, attraversa la letteratura dei sistemi religiosi e la storia dell’umanità. Totem, campanili, croci, sono centri attorno ai quali riunirsi. In Il gesto e le parole Leroi-Gourhan sostiene che gli umani hanno incominciato a pensare perché hanno le mani e che l’evoluzione della specie ha seguito due direttrici, quella degli animali a simmetria radiale e quella degli animali a simmetria bilaterale. La forma più evoluta della prima è la medusa, quella della seconda è l’uomo. Il dato interessante è che l’uomo quando attacca o quando si difende tende a mettersi in cerchio. Si tratta per Gourhan di una reazione biologica, di una precondizione fenomenologica. L’arte moderna nelle sue creazioni parte proprio da qui, non più da una semplice rappresentazione del mondo, ma da un’interazione psicofisica con il mondo. Così l’architettura. Pensiamo a Le Corbusier, che è il primo che si distacca nettamente dalla tradizione ottocentesca. Le Corbusier non lavora solo sulle proporzioni ma sul cervello di chi percorre le sue architetture. A La Tourette la finestra obbliga a guardare un paesaggio, le panchine una di fronte all’altra imbarazzano i fedeli, il cemento armato incute un senso di spaesamento. Oggi l’arte opera sulla nostra aisthesis, non riguarda solo i sensi ma ciò che i sensi determinano a partire dalla forma concettuale. Un landmark, un totem, sono questo. In tale prospettiva si muove la teoria del paesaggio di Blumenberg, quando sostiene che lo sguardo dell’uomo primordiale è uno sguardo interessato, uno sguardo attento alla propria sopravvivenza, a indagare se via sia un pericolo e se vi sia un luogo dove rifugiarsi o fuggire. Insomma il paesaggio non ha niente a che vedere con il bel verde o con  un tramonto indimenticabile, ma ha a che fare con la sopravvivenza. Anche il cielo, per secoli escluso dal paesaggio, è diventato il luogo da cui sferrare o subire un attacco. Un’altra strategia utilizzata dall’arte dei nostri giorni per coinvolgere la nostra aisthesis è il virtuale, il rendere presente qualcosa che è assente. Quando Christo pianta 1340  ombrelloni azzurri in Giappone nella vallata del fiume Sato e 1760 ombrelloni gialli dalla parte opposta del globo nelle lande desertiche di Tejon Pass, vicino a Los Angeles, seguendo una mappa di ricordi, un block notes di appunti, crea un collegamento fra due luoghi che prima non c’era. Hansjörg Voth costruisce una Glasshaus per Icaro, una grande zattera che trasporta una mummia lungo il Reno, un viaggio rituale lungo i luoghi della mitologia tedesca, poi quando raggiunge il mare verso sera la brucia. Ogni cammino è un cammino rituale, totemico. All’incrocio del Danubio con il Reno Voth realizza un altro intervento che confonde lo spettatore, due elementi conici in marmo restituiscono da ogni punto di vista l’impressione di una linea retta, di un orizzonte artificiale. Forse di una diga, per non dimenticare Heidegger quando dice, alludendo al sopravvento della tecnica, che una diga trasforma il fiume in un serbatoio d’energia. E anche una scala nel deserto marocchino, ein utopischer Aufstieg,  per inseguire dio. L’arte contemporanesa spesso lavora sull’assenza facendola diventare presenza. “La poesia è la metà di quel discorso in cui non riesci a sentire le parole del tuo interlocutore. Ma è di quelle che t’importa davvero.”  (Peter Härtling) Chi voglia essere un artista contemporaneo dovrebbe lavorare in questo campo, è in questo fiume che si gioca la partita. Se trasforma una ruota in elemento letterario, un landmark in allusione totemica, un corteo in rito, oggetti senza più una funzione in nuove scritture, capodanni agricoli in fucine di senso, macchine da cucire in fecondi aratri è sulla buona strada. Come è sulla buona strada chi non si faccia offuscare dal raptus autoriale e ceda il passo all’instaurazione di processi coerenti a un’idea di bello che non è più quella hegeliana, ma assomiglia alla definizione di Rilke quando scrive che "il bello è solo l'inizio del tremendo". E il tremendo è tale perchè non si cura di te. (Lunedì 2 settembre alle Vigne di Alice con Roberto Masiero, Claudio Bertorelli, Cinzia Canzian, Anna C&C, Daniele Bortolotto, Alfonso Calafiore, Federico Floriani, Anna Pontel, Ruralboxx, Giorgia Zanellato. La foto è tratta da Hannsjörg Voth Zeichen der Erinnerung, Dam, Frankfurt am Main, 1987) 

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