Nell’aria di gelsomino, nella brezza marina di un’estate che non arriva, nel profumo di legno e incenso il dubbio era il seguente: la scrittura ha un corpo ma ha anche un’anima? non un’anima in senso proprio (ci interroghiamo da secoli se ce l’abbia il corpo dell’uomo), ma un rinvio spirituale, religioso. Se n’è parlato alla conferenza internazionale Corpo e anima della scrittura tra Oriente e Occidente svoltasi nei giorni scorsi alla Fondazione Cini di Venezia. Intorno a un tavolo Denis Gril, l’aspetto ascetico da guardiano della moschea, l’aspirazione araba di un inglese con accento francese, Paolo Urizzi, la faccia da D’Artagnan e la voce veloce e incrinata da un colpo di freddo, John Carpenter, un Robin William con la gestualità di un prete allegro, e Gian Carlo Calza, abito elegante e animo timido. Un esempio: le lettere arabe del nome Achmed, nome usato per indicare il profeta dopo l’ascensione, disegnano in modo stilizzato le posizioni assunte dai fedeli per accingersi a pregare. I caratteri, il “corpo” delle lettere, indicano da destra verso sinistra la posizione eretta, quella piegata in avanti e in ginocchio. Se ci pensiamo anche alcune lettere del nostro alfabeto possono essere “umanizzate”: T un uomo che si ripara la testa con le braccia, I un uomo eretto, Y con le braccia alzate, O un volto, H due che si danno la mano. Un’antica tradizione conferma del ruolo centrale, totalizzante, della scrittura nella religione e quindi nel mondo islamico: “la prima cosa che dio creò fu il calamo (canna appuntita, giunco, penna di uccello, usata un tempo per scrivere ndr), e tutto quello che volle creare disse al calamo di scriverlo. Poi quando si fu messo a scriverlo creò il cielo, la terra, il sole, la luna e gli astri”. I teologi distinguono tra lettere mentali, quelle della lingua degli uccelli, degli spiriti e degli angeli; le lettere pronunciate, quelle prodotte dal soffio degli uomini e che secondo l’ordine alfabetico nafas sono elencate nell’ordine in cui si arresta il soffio, e le lettere scritte a ognuna delle quali corrisponde un numero. In arabo la corrispondenza numerica dà luogo ad infinite combinazioni di senso: nel quadrato magico i 99 nomi di Allah sono disposti in altrettante caselle secondo un ordine che dà sempre 3394 in qualsiasi senso si leggano i nomi: diagonale, verticale o orizzontale. “In questa visione ispirata al ruolo centrale della scrittura l’esistenza è una lettera di cui tu sei il senso”, l’uomo stesso è “the path of writing”, è in movimento verso la realizzazione di sé. La metafora del cammino riemerg nella tradizione giapponese che chiama l’arte della calligrafia Shodo (sho=scrittura, do=via). La pressione del pennello, la quantità d’inchiostro, la precisione del gesto, la posizione dei caratteri all’interno del foglio o in rapporto a un’immagine sono elementi che possono esprimere emozione, capacità tecnica, concentrazione, sono portatori di un senso che va al di là del significato delle parole per approdare all’inesprimibile, alla conoscenza profonda del risvegliato così come concepita dalla tradizione buddista. Il primo verso di una poesia in stile chirashi-gaki sullo sfondo di uno specchio d’acqua popolato da fenicotteri può essere individuato solo ponendo attenzione alle emozioni espresse all’intensità della pennellata e dal modo di scrivere . Nello Zen scrittura, pittura e meditazione sono una cosa sola. L’obiettivo è quello di raggiungere l’annullamento del sé per sentirsi parte del mondo che ci circonda. (Un’esperienza che è stata descritta anche da un punto di vista scientifico dalla neurologa americana Jill Bolte Taylor. Colpita da ictus nella parte sinistra del cervello, quella che presiede alla meoria, al linguaggio all’elaborazione delle informazioni, la Taylor ha raccontato la straordinaria sensazione di pace interiore vissuta con l'emisfero destro, quello che presiede alle emozioni, all’intuito, alla percezione del momento presente.) In una famosa immagine Zen sono ritratti due ciechi che attraversano a tentoni il tronco di un albero che funge da ponte su un abisso. Il primo procede a carponi, l’altro cerca la strada con un bastone, alle sue spalle le fronde degli alberi sembrano dargli coraggio e sospingerlo. I ciechi sul ponte sono una metafora sia della nostra ricerca interiore che della nostra vita quotidiana. Nell’acquerello di un salice piegato dal vento sta invece scritto: pazienza, anche con venti non graditi, il salice. Avvicinandoci all’Europa viene in mente il Fedro di Platone in si afferma la superiorità del logos della parola detta, su quella scritta, il discorso non ha valore senza la presenza, l’assistenza, la paternità di chi lo pronuncia. Il dialogo riporta il mito di Theut, l’inventore della scrittura. Il re ammonisce Theut dicendogli che la scrittura produce dimenticanza nelle anime degli gli uomini: “in virtù di una fiducia nella scrittura, cercheranno di ricordare dal di fuori, muovendo da segni estranei , e non dall’interno a partire da Sé. La parola, il logos, le Sacre Scritture furono poi centrali anche nella tradizione cristiana. Mentre tornando verso Oriente la parola stessa è messa in discussione come strumento di vera conoscenza. Nella tradizione induista è la Mente che viene prima di ogni altra cosa: “Parola disse: Sicuramente sono meglio di te, perché faccio apprendere ciò che tu conosci, lo faccio comprendere”. “Prajapati rispose: “Mente è senz’altro migliore di te, perché tu imiti ciò che ha fatto mente e segui nella sua scia”.
Questo articolo è debitore nei confronti dei papers di Denis Gril, Science of letters and graphic symbolism, Paolo Urizzi, The science of letters in the work of Ibn’Arabi, John T Carpenter, Materiality and rhytmic forms of Japanese calligraphy, Gian Carlo Calza, Pittura scrittura, meditazione: tre o una. Per i riferimenti alla disputa tra parola scritta e detta e tra mente e parola all’articolo di Roberto Calasso La via dell’India.
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