lunedì 5 settembre 2011

Diario Marocchino - Fes-Rabat




La Gare de Fes è costruita come una porta della medina, con il profilo superiore che riprende la sagoma della cupola araba, immagino una stazione italiana costruita come uno dei portoni delle città medievali. La porta porta da qualche parte, aiuta a passare da un mondo all’altro, da un luogo all’altro, dal dentro al fuori, è un elemento simbolico molto forte. Anche salire su un treno è aprire una porta verso un nuovo spazio-tempo. I nostri biglietti sono per Rabat, la capitale. Di una città sono le prime cose che vedi sono quelle che ti rimangono più impresse. Percorrendo la via principale della medina, Avenue Mohammed V, sei portato a proseguire verso un ingresso un po’ fatiscente in salita alla fine della strada, è l’ingresso del grande cimitero As Shouhada, migliaia di tombe che digradano verso l’oceano. Non te l’aspetti, e se il cielo è grigioatlantico un po’ di malinconia ti piove addosso. Quando fai il bagno ce l’hai alle spalle insieme alle maestose mura della Kasbah (fortezza) des Oudaias che nasconde abitazioni bianche e azzurre che pensavi si trovassero solo in Grecia. Lì, in riva al mare, c’è un ristorante di pesce che si chiama Borj Eddar, il pesce non è granché ma se vuoi trovare degli italiani sia a pranzo che a cena vai a colpo sicuro. Lungo Avenue Mohammed V c’è anche Mohammed (non so se sia il nome riservato ai turisti) il libraio più singolare che abbia mai incontrato: se ne sta tutto il giorno accovacciato in un bugigattolo stipato di libri usati e vecchie riviste. Quelle che toglie per costruirsi il suo nido tra le carte le espone sulle porte e sui muri intorno alla bottega-edicola-libreria. Per 15 dirham (poco più di un euro) si possono comprare dei numeri della rivista Les Temps Modernes diretta da Sartre, copie di Paris Match, un’edizione de Les fleurs du mal del 1967 dell’Università di Bucarest con testo rumeno a fronte, Les yeux d’Elsa di Louis Aragon o un’edizione Lattès delle poesie di Verlaine. Non lontano da Mohammed, tra numerose botteghe e carretti che vendono fichi d’india, c’è Hajar che insieme alla mamma prepara e cucina focacce e ciambelle. I suoi occhi da gazzella e il suo gioioso sorriso sono difficili da dimenticare, la ciambella al pomodoro e cipolla, condita con grasso di agnello, anche.
A Rabat si comincia a essere contagiati dalla frenesia della ftur di cui mi aveva parlato un’amica. Ftur è la rottura del digiuno che avviene in prossimità del tramonto, verso le 7.25, ma l’orario esatto cambia a seconda della latitudine. Si può ricominciare a bere, mangiare, fumare e a fare l’amore, dopo più o meno quindici ore di astinenza. Alle sei i negozi e le botteghe cominciano a chiudere, la gente si affretta, alle sette le strade di una città trafficata come Rabat sono deserte: sono tutti a casa, nei ristoranti o nelle loro botteghe ad aspettare il segnale: la preghiera del muezzin e, in alcune città, suona anche una sirena. Va bene, ma che cosa c’entrano degli europei con tutto questo? C’entrano, perché a meno che tu non abbia indossato una sorta di impermeabile sentimentale, entri in sintonia con il luogo in cui vivi, per cui durante il giorno non hai digiunato ma hai mangiato meno; a mezzogiorno i ristoranti vuoti non fanno certo venire voglia di sedersi, né mangi o bevi per strada, sarebbe come se uno cominciasse a parlare al telefonino durante la messa di Pasqua: non si fa. Allora hai mangiucchiato un panino al riad o bevuto una bibita appartandoti, oppure hai deciso di vedere se ce la fai anche tu a resistere. Ecco, ci siamo seduti al ristorante El Bahia, appena fuori dalla medina, alle 7 con una fame da lupi. Seduti agli altri tavoli diversi marocchini e qualche turista in attesa, solo una coppia di francesi mangia ma è una nota stonata. Il menu de la rupture du jeune a 30 dirham prevede: Harira, una zuppa di carne e legumi, un uovo, Chebakia, un impasto di farina e miele fritto, datteri, fichi, spremuta d’arancio, caffelatte o the alla menta. In un tavolo vicino al nostro è seduto un signore che ha la faccia di un monaco buddista e che indossa un’elegante jallaba ricamata color crema. Lo eleggiamo a nostra “guida spirituale”: inizieremo a mangiare quando inizierà lui, cioè al termine della preghiera del muezzin.
Rabat ha una tranvia più moderna di quella di Milano ma la cosa curiosa è che sono state assoldate squadre di servizio d’ordine che hanno il compito di allontanare le numerose persone che camminano tranquillamente tra le rotaie e di fermare e di bloccare gli automobilisti che non rispettano semafori e precedenze. Un bel contrasto fra tecnologia e vecchie abitudini. Inoltre il tram non è mai affollato perché costa un dirham in più rispetto al petit taxi. La sera beviamo un the alla menta sulla terrazza del riad, c’è la luna piena e intorno alle undici, come voci d’uccelli che si confondono, giungono dalle diverse moschee le preghiere, una ninna nanna misteriosa che rinvia a qualcosa di più grande sopra di noi. Una ninna nanna più suggestiva della torre di Hassan, il monumento simbolo di Rabat, con la sua foresta di colonne che avrebbe dovuto diventare la seconda moschea del mondo islamico per grandezza. Nell’aria fresca della sera i profumi dei fiori si mescolano a quelli delle spezie e del mare che si intuisce al di là dei tetti. Chissà dove sono adesso Hajar e il santone con la jallaba ricamata, cosa stanno facendo, come sono le loro vite, come sarebbero le nostre qui? E Mohammed chiusa la sua libreria-tana dove si rifugia? Anche la signora che gestisce questo riad è un personaggio. Si chiama Christine, porta degli occhiali a goccia, capelli grigi, è smilza e fuma Gauloises. Christine fa le veci del figlio che per agosto se n’è andato in Madagascar. La aiutano Latifa, una domestica che ride sempre e che nei momenti di pausa legge il Corano, e l’amica Francoise che tanti anni fa s’innamorò di un marocchino e poi della lingua araba che studia ancora oggi. Christine insegnava francese agli immigrati, Francoise era preside di un istituto tecnico, ora sono in pensione e il resto dell’anno abitano ad Ange nella valle della Loira. Christine una sera ci ha presentato Alain, un Depardieu parigino con il quale abbiamo discusso per ore sul sentimento d’identità nazionale in Francia e in Italia, scoprendo con una certa sorpresa che secondo molti francesi gli italiani sarebbero più orgogliosi di essere italiani di quanto non lo siano i francesi di essere i francesi. Soffrono molto il blend culturale, in particolare soffrono del fatto che i campioni della nazionale di calcio come Zidane e il loro presidente Sarkozi abbiano sangue misto. Conservano nei confronti degli stranieri provenienti dalle loro ex colonie un inguaribile atteggiamento di superiorità.

1 commento:

  1. bee....Mario ho letto con molto interesse il riassunto sulla mia AMATA RABAT.....ed è tutto vero quello che tu hai sentito e quello che quella citta' ti ha fatto sentire ora hai capito xchè ogni volta che io leggo qualkosa sul marocco nei miei occhi c'è sempre una lacrimuccia pronta a scendere e anche se nn voglio lei mi cade sul mio fazzoletto...grazie x aver scritto tutte queste belle cose sul marocco spero che qualkun altro lo AMI come lo AMO IO...!!!!

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