Kairòs per i Greci era il momento opportuno, l’occasione favorevole, ma attenzione: alle volte ciò che cerchiamo ce l'abbiamo sotto il naso....
kairòs, togli due lettere e diventa kaos, aggiungi la l e diventa kalòs, ma se metti la g allora ...-)
"Nel blog l'altro può firmare nel tuo testo, esiste uno spazio per chiunque decida di arrivare"
sabato 23 agosto 2008
venerdì 22 agosto 2008
Una bella poesia di Montale
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr'occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.
(Eugenio Montale, Satura, Xenia II)
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr'occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.
(Eugenio Montale, Satura, Xenia II)
mercoledì 20 agosto 2008
“Against Order? Against disorder?”
Dopo una giornata trascorsa tra i padiglioni della Biennale, gli allestimenti all’Arsenale e la mostra al Correr “Da Rauschenberg a Murakami, 1964-2003” mi sono affacciato a una finestra che si trova lungo la Riva degli Schiavoni. Riflettevo su quanto visto. Davanti a me, nella luce rossastra del tramonto, l’andirivieni nel Bacino di San Marco e il viavai cosmopolita fra il ponte della Paglia e quello dei Greci.
“Less oil more courage” è la scritta incontrata nel padiglione italiano su un piccolo quadro di Rirkrit Tiravanija. L’inglese è sempre una lingua efficace per gli slogan.
A pochi passi “Silicone e polistirolo” di Rudolf Stingel. Mettere a disposizione una superficie su cui ognuno può incidere la propria frase o conficcare la bottiglietta d’acqua minerale o il il suo biglietto da visita seduce. Io ho scritto l’indirizzo del mio sito Internet, poi mi sono ricordato che anche all’asilo di mia figlia c’è una parete su cui ognuno può disegnare ciò che vuole.
18.000 pillole fatte a mano sono l’opera di Dunia Hirst. In effetti la società occidentale è alla continua ricerca di pillole per i propri mali fisici e psichici. Riprodurre 18.000 volumi, qualcuno in più di quelli intagliati dal Pianta alla Scuola grande di San Rocco, non sarebbe stato attuale.
Don Graham fa girare i visitatori fra due specchi in cui ognuno può vedere la propria immagine “ritardata” dalla ripresa video. Si esiste perché si è un’immagine, come Narciso.
Un temenos formato da sei plasma è l’installazione di Amit Goren. Uno si siede al centro è viene bombardato da immagini e suoni. Un po’ come a casa, quando tua moglie accende l’aspirapolvere mentre guardi la partita.
“L’auto si riempie di sentimenti durante il viaggio? È una delle 300 domande personali, raccolte da Peter Fischli in vent’anni, proiettate in varie lingue all’interno di una camera oscura. Nel buio ogni domanda diventa più profonda di quel che sembra.
Non mi ricordo più chi disse che in fondo ognuno di noi è un numero, ma sicuramente Stanislaw Dkozdz si è concentrato sull’argomento. Il padiglione polacco ha le pareti ricoperte da 300.000 dadi. Al centro, su un tavolo da biliardo, cinque dadi per 46.656 combinazioni possibili.
Fuori dal padiglione mi sono accorto di una signora che, esausta, sonnecchiava sotto un melo. A pochi metri da lei uno scheletro si specchiava appoggiato a un vecchio comò. Insieme erano una vera opera d’arte.
Ne “La Zona” curata da Massimiliano Gioni un filmato riprendeva i volti di vari ragazzi impegnati a dire: “Non farò figli per questo paese”. Un altro filmato di mezz’ora “esplorava gli ultimi attimi di vita di un cane.”
In sintonia il padiglione svizzero: il video di Emanuelle Antille mostra dei ragazzi che pestano a sangue un gatto fino ad ucciderlo un gatto. Un altro filmato, invece, riprende l’agonia di un’anziana signora assistita dalla figlia. Stessa logica della tv del dolore?
Si respira nel padiglione della Danimarca trasformato in un vitale caleidoscopio da Olafur Eliasson.
All’Arsenale “Hotel Capsula” di Ozawa riproduce il luogo dove dormono i giapponesi che lavorano a Tokyo e la sera non riescono tornare a casa: un cubo di legno e stoffa. Al Museo Correr c’è un quadro che vale la visita se amate Guttuso: “La Vucciria”.
Per vedere un popolo più metafisico di quello del mercato di Palermo, invece, bisogna tornare ai Giardini, al padiglione israeliano. “Against Order? Against disorder?” di Michal Rowner ci mostra omini che vanno e che vengono, che girano intorno e poi si disperdono, figure uguali che ruotano su sé stesse. Ho chiesto se fosse una metafora della diaspora ebraica. Mi hanno assicurato che non è così, l’opera invita riflettere su bio-tecnologie, clonazione e nuovo ordine mondiale. Prendo atto. Guardo il bacino di San Marco: le barche si incrociano, si affiancano, poi si disperdono. Sotto di me centinaia di teste continuano a formicolare. Cinque turisti sul ponte dei Greci fotograno lo stesso soggetto: il tramonto.
Ci muoviamo tutti, in continuazione, ma verso cosa? “Against Order? Against disorder?”
“Less oil more courage” è la scritta incontrata nel padiglione italiano su un piccolo quadro di Rirkrit Tiravanija. L’inglese è sempre una lingua efficace per gli slogan.
A pochi passi “Silicone e polistirolo” di Rudolf Stingel. Mettere a disposizione una superficie su cui ognuno può incidere la propria frase o conficcare la bottiglietta d’acqua minerale o il il suo biglietto da visita seduce. Io ho scritto l’indirizzo del mio sito Internet, poi mi sono ricordato che anche all’asilo di mia figlia c’è una parete su cui ognuno può disegnare ciò che vuole.
18.000 pillole fatte a mano sono l’opera di Dunia Hirst. In effetti la società occidentale è alla continua ricerca di pillole per i propri mali fisici e psichici. Riprodurre 18.000 volumi, qualcuno in più di quelli intagliati dal Pianta alla Scuola grande di San Rocco, non sarebbe stato attuale.
Don Graham fa girare i visitatori fra due specchi in cui ognuno può vedere la propria immagine “ritardata” dalla ripresa video. Si esiste perché si è un’immagine, come Narciso.
Un temenos formato da sei plasma è l’installazione di Amit Goren. Uno si siede al centro è viene bombardato da immagini e suoni. Un po’ come a casa, quando tua moglie accende l’aspirapolvere mentre guardi la partita.
“L’auto si riempie di sentimenti durante il viaggio? È una delle 300 domande personali, raccolte da Peter Fischli in vent’anni, proiettate in varie lingue all’interno di una camera oscura. Nel buio ogni domanda diventa più profonda di quel che sembra.
Non mi ricordo più chi disse che in fondo ognuno di noi è un numero, ma sicuramente Stanislaw Dkozdz si è concentrato sull’argomento. Il padiglione polacco ha le pareti ricoperte da 300.000 dadi. Al centro, su un tavolo da biliardo, cinque dadi per 46.656 combinazioni possibili.
Fuori dal padiglione mi sono accorto di una signora che, esausta, sonnecchiava sotto un melo. A pochi metri da lei uno scheletro si specchiava appoggiato a un vecchio comò. Insieme erano una vera opera d’arte.
Ne “La Zona” curata da Massimiliano Gioni un filmato riprendeva i volti di vari ragazzi impegnati a dire: “Non farò figli per questo paese”. Un altro filmato di mezz’ora “esplorava gli ultimi attimi di vita di un cane.”
In sintonia il padiglione svizzero: il video di Emanuelle Antille mostra dei ragazzi che pestano a sangue un gatto fino ad ucciderlo un gatto. Un altro filmato, invece, riprende l’agonia di un’anziana signora assistita dalla figlia. Stessa logica della tv del dolore?
Si respira nel padiglione della Danimarca trasformato in un vitale caleidoscopio da Olafur Eliasson.
All’Arsenale “Hotel Capsula” di Ozawa riproduce il luogo dove dormono i giapponesi che lavorano a Tokyo e la sera non riescono tornare a casa: un cubo di legno e stoffa. Al Museo Correr c’è un quadro che vale la visita se amate Guttuso: “La Vucciria”.
Per vedere un popolo più metafisico di quello del mercato di Palermo, invece, bisogna tornare ai Giardini, al padiglione israeliano. “Against Order? Against disorder?” di Michal Rowner ci mostra omini che vanno e che vengono, che girano intorno e poi si disperdono, figure uguali che ruotano su sé stesse. Ho chiesto se fosse una metafora della diaspora ebraica. Mi hanno assicurato che non è così, l’opera invita riflettere su bio-tecnologie, clonazione e nuovo ordine mondiale. Prendo atto. Guardo il bacino di San Marco: le barche si incrociano, si affiancano, poi si disperdono. Sotto di me centinaia di teste continuano a formicolare. Cinque turisti sul ponte dei Greci fotograno lo stesso soggetto: il tramonto.
Ci muoviamo tutti, in continuazione, ma verso cosa? “Against Order? Against disorder?”
Ti va una partita?
G. Ti va una partita?
R. Siamo spettatori.
G. Facciamo il gioco delle domande?
R. E come si gioca?
Semplice, si fanno delle domande.
affermazione uno a zero
Non vale.
Perche?
Non avevo ancora cominciato.
Affermazione 2 a zero.
Ma che conti tutto?
Come?
Conti tutto?
Fallo, niente ripetizioni, tre a zero partita per me
G. Io non gioco se continui a questo modo
R. A chi il servizio?
G. ehhh
R.Esitazione zero a uno
A chi tocca?
Perché?
Perché no?
Per che cosa?
Fallo, niente sinonimi
In nome di dio ma che succede?
Fallo domanda retorica due a uno.
A che equivale tutto questo?
Non lo indovini?
Stai parlando con me
C’é qualcun altro
Chi?
E io che ne so?
Ma lo chiedi a me
Ma fai sul serio?
E’ una domanda retorica?
No
Negazione Due Pari, punto, partita
Ma che ti prende oggi?
Quando?
Cosa?
Sei sordo?
Sono morto?
Si o no?
C’è scelta?
C’è Dio?
Fallo, no no niente teologia, tre a due, una partita a testa
Come ti chiami?
E tu come ti chiami?
Prima tu.
Affermazione uno a zero.
Come ti chiami quando sei a casa?
Tu come ti chiami?
Quando sono a casa?
Perché è diverso a casa?
Quale casa?
Non ce l’hai?
Perché me lo chiedi?
G.Dove vuoi arrivare?
R.Come ti chiami?
G. Ah ripetizione due a zero punto partita
R.Ma chi credi di essere?
G.Domanda retorica partita e incontro per me
(Dialogo tratto dal film “Rosencrantz e Guildenstern” scritto e diretto da Tom Stoppard)
R. Siamo spettatori.
G. Facciamo il gioco delle domande?
R. E come si gioca?
Semplice, si fanno delle domande.
affermazione uno a zero
Non vale.
Perche?
Non avevo ancora cominciato.
Affermazione 2 a zero.
Ma che conti tutto?
Come?
Conti tutto?
Fallo, niente ripetizioni, tre a zero partita per me
G. Io non gioco se continui a questo modo
R. A chi il servizio?
G. ehhh
R.Esitazione zero a uno
A chi tocca?
Perché?
Perché no?
Per che cosa?
Fallo, niente sinonimi
In nome di dio ma che succede?
Fallo domanda retorica due a uno.
A che equivale tutto questo?
Non lo indovini?
Stai parlando con me
C’é qualcun altro
Chi?
E io che ne so?
Ma lo chiedi a me
Ma fai sul serio?
E’ una domanda retorica?
No
Negazione Due Pari, punto, partita
Ma che ti prende oggi?
Quando?
Cosa?
Sei sordo?
Sono morto?
Si o no?
C’è scelta?
C’è Dio?
Fallo, no no niente teologia, tre a due, una partita a testa
Come ti chiami?
E tu come ti chiami?
Prima tu.
Affermazione uno a zero.
Come ti chiami quando sei a casa?
Tu come ti chiami?
Quando sono a casa?
Perché è diverso a casa?
Quale casa?
Non ce l’hai?
Perché me lo chiedi?
G.Dove vuoi arrivare?
R.Come ti chiami?
G. Ah ripetizione due a zero punto partita
R.Ma chi credi di essere?
G.Domanda retorica partita e incontro per me
(Dialogo tratto dal film “Rosencrantz e Guildenstern” scritto e diretto da Tom Stoppard)
martedì 19 agosto 2008
Venti righe straordinarie sulla stupidità
"Egli ripagava il suo secolo col definire volgare stupidità l'origine delle misteriose alterazioni che ne costituivano la malattia, distruggendo il genio.
Né l'intendeva affatto in senso offensivo. Infatti se di dentro la stupidità non somigliasse straordinariamente all'intelligenza, se di fuori non si potesse scambiare per progresso, genio, speranza, perfezionamento, nessuno vorrebbe esser stupido e la stupidità non esisterebbe. O almeno sarebbe molto facile combatterla. Purtroppo invece essa ha qualcosa di singolarmente simpatico e naturale. Se si trova, ad esempio, che una oleografia è una produzione artistica più ingegnosa di un quadro dipinto a mano , anche questo contiene una verità, ed è più facile dimostrarla che non dimostrare la grandezza di Van Gogh. Allo stesso modo è molto agevole e rimunerativo essere un drammaturgo più forte di Shakespeare o un narratore più armonico di Goethe, e in un autentico luogo comune v'è certamente più umanità che in una nuova scoperta. Non esiste una sola idea importante di cui la stupidità non abbia saputo servirsi, essa è pronta e versatile e può indossare tutti i vestiti della verità. La verità invece ha un abito solo e una sola strada, ed è sempre in svantaggio."
Robert Musil, da: Der Mann ohne Eigenschaften, Berlin 1931, S.54
Né l'intendeva affatto in senso offensivo. Infatti se di dentro la stupidità non somigliasse straordinariamente all'intelligenza, se di fuori non si potesse scambiare per progresso, genio, speranza, perfezionamento, nessuno vorrebbe esser stupido e la stupidità non esisterebbe. O almeno sarebbe molto facile combatterla. Purtroppo invece essa ha qualcosa di singolarmente simpatico e naturale. Se si trova, ad esempio, che una oleografia è una produzione artistica più ingegnosa di un quadro dipinto a mano , anche questo contiene una verità, ed è più facile dimostrarla che non dimostrare la grandezza di Van Gogh. Allo stesso modo è molto agevole e rimunerativo essere un drammaturgo più forte di Shakespeare o un narratore più armonico di Goethe, e in un autentico luogo comune v'è certamente più umanità che in una nuova scoperta. Non esiste una sola idea importante di cui la stupidità non abbia saputo servirsi, essa è pronta e versatile e può indossare tutti i vestiti della verità. La verità invece ha un abito solo e una sola strada, ed è sempre in svantaggio."
Robert Musil, da: Der Mann ohne Eigenschaften, Berlin 1931, S.54
venerdì 15 agosto 2008
Otto Weininger
Scrive Magris citando Otto Weininger:
"Il viaggio è anche una benevola noia, una protettrice insignificanza. L'avventura più rischiosa, difficile e seducente si svolge a casa; è la che si gioca la vita, la capacità o incapacità di amare e di costruire, di avere e dare felicità, di crescere con coraggio o rattrappirsi nella paura; è la che ci si mette a rischio.
La casa non è un idillio; è lo spazio dell’esistenza concreta e dunque esposta al conflitto, al malinteso, all’errore, alla sopraffazione e all’aridità, al naufragio. Per questo essa è il luogo centrale della vita, col suo bene e il suo male; il luogo della passione più forte.
Andare in giro per il mondo vuol dire pure riposarsi dall’intensità domestica, adagiarsi in piacevoli pause pantofolaie, lasciarsi andare passivamente - immoralmente secondo Weininger - al fluire delle cose”.
"Il viaggio è anche una benevola noia, una protettrice insignificanza. L'avventura più rischiosa, difficile e seducente si svolge a casa; è la che si gioca la vita, la capacità o incapacità di amare e di costruire, di avere e dare felicità, di crescere con coraggio o rattrappirsi nella paura; è la che ci si mette a rischio.
La casa non è un idillio; è lo spazio dell’esistenza concreta e dunque esposta al conflitto, al malinteso, all’errore, alla sopraffazione e all’aridità, al naufragio. Per questo essa è il luogo centrale della vita, col suo bene e il suo male; il luogo della passione più forte.
Andare in giro per il mondo vuol dire pure riposarsi dall’intensità domestica, adagiarsi in piacevoli pause pantofolaie, lasciarsi andare passivamente - immoralmente secondo Weininger - al fluire delle cose”.
domenica 10 agosto 2008
Tre immagini della vita
Tre immagini della vita tratte da Wittgestein: la bottiglia nella quale la mosca vola a casaccio; il pesce nella rete e l'errabondo nel labirinto. Il pesce nella rete non ha prospettive per il futuro, la mosca spera d'imboccare a caso la via d'uscita, l'uomo nel labirinto coltiva la speranza.
(L. Wittgenstein)
(L. Wittgenstein)
venerdì 8 agosto 2008
La mela
"Se tu hai una mela, e io ho una mela, e ce la scambiamo, allora tu ed io abbiamo sempre una mela per uno. Ma se tu ha un’idea, ed io ho un’idea, e ce la scambiamo, allora abbiamo entrambi due idee."
George Bernard Shaw
George Bernard Shaw
giovedì 7 agosto 2008
Con tutte le tue forze
Se non riesci a fare la vita che vorresti
almeno questo tenta con tutte
le tue forze: non sciuparla
nei continui contatti con la gente
nelle continue chiacchiere e viavai.
Non sciuparla portandotela
sempre in giro e mettendola in mostra
nella stupidità giornaliera di rapporti e frequentazioni
finché non diventi fastidiosa estranea.
1913 Costantino Kavafis
almeno questo tenta con tutte
le tue forze: non sciuparla
nei continui contatti con la gente
nelle continue chiacchiere e viavai.
Non sciuparla portandotela
sempre in giro e mettendola in mostra
nella stupidità giornaliera di rapporti e frequentazioni
finché non diventi fastidiosa estranea.
1913 Costantino Kavafis
mercoledì 6 agosto 2008
Il mitico Magris e il popolare Fo "venerati maestri"
“Di solito il professor Magris se ne sta tranquillo a casa sua, o nel suo caffè, contemplando una piazza di Trieste spazzata dalla bora, socchiudendo gli occhi al passare frettoloso di qualche “mula” di spettacolare bellezza e facendosi prendere da una malinconia leggera, qualcosa come il senso degli imperi, delle generazioni e delle letterature che passano, mandando così qualche tenue pensiero alla Cripta dei cappuccini, a Joseph Roth, a Lernet Holenia, a Schnitzler, a Walser e a una decina di scrittori di seconda fascia dell’impero asburgico, quando a tradimento, nel vuoto della casa ovattata dai libri, squilla il telefono e dal “Corriere della sera” una voce che tradisce una certa tensione dice: Professore, abbiamo un problema.
ORA, VOI SAPETE BENISSIMO CHE, quando una voce fa risuonare quella frase maledetta non importa che arrivi a Houston dall’Apollo 13 o a Trieste dall’ufficio centrale del “Corriere”: vuol dire che, vada come vada, la situazione è grave. Probabilmente non seria, ma disperata sì. Lo si capisce non appena la voce la telefono prosegue con una voce che cita alla rinfusa alcune notizie di giornata, che possono essere anche abbastanza letterarie, per la verità, e si rifà a un presunto desiderio del direttore Paolo Mieli che il celebrato professor Magris commenti, “come sa fare lei, alla sua maniera”, quelle notizie incoerenti individuando, dice la voce, un filo rosso, una coerenza ultima, il raggio dell’ultravioletto che fa trascolorare l’utopia in una chance, o in una trance, letteraria, ma anche filosofica e mistica, chissà.
Boh. Prima che il redattore dell’organo ufficiale della grande e piccola borghesia dell'Italia produttiva, l’addetto alla sezione culturale, abbia finito di inanellare altre considerazioni a casaccio sullo Zeitgeist o l’Entfremdung, l’intelligenza proteiforme e prensile del professor Magris ha già individuato ed estratto il nocciolo della questione, la reliquia vivente di quel pensiero privo di noccioli: trattasi di cazzata."
"...Mentre per andare sul popolare, anzi sul molto popolare c'era sempre Dario Fo, sui cui si potrebbe anche aprire una parentesi: perché lo sapevamo tutti che fo era un guitto formidabile, un istrione eccezionale. E quando Fo "fa" il suo numero medievale in cui racconta e mima storie di frati e di contadini, storie materiali e carnali, di maiali e truogoli, "el pursèl in tel smerdasso", c'è davvero da farsela addosso per la sua gigioneria terrigna e anzi fangosa, per l'allegria contagiosa del letame quando un frate ci cade dentro."
Da "Venerati maestri" di Edmondo Berselli , "un libro per ridere su una cultura da piangere”.
ORA, VOI SAPETE BENISSIMO CHE, quando una voce fa risuonare quella frase maledetta non importa che arrivi a Houston dall’Apollo 13 o a Trieste dall’ufficio centrale del “Corriere”: vuol dire che, vada come vada, la situazione è grave. Probabilmente non seria, ma disperata sì. Lo si capisce non appena la voce la telefono prosegue con una voce che cita alla rinfusa alcune notizie di giornata, che possono essere anche abbastanza letterarie, per la verità, e si rifà a un presunto desiderio del direttore Paolo Mieli che il celebrato professor Magris commenti, “come sa fare lei, alla sua maniera”, quelle notizie incoerenti individuando, dice la voce, un filo rosso, una coerenza ultima, il raggio dell’ultravioletto che fa trascolorare l’utopia in una chance, o in una trance, letteraria, ma anche filosofica e mistica, chissà.
Boh. Prima che il redattore dell’organo ufficiale della grande e piccola borghesia dell'Italia produttiva, l’addetto alla sezione culturale, abbia finito di inanellare altre considerazioni a casaccio sullo Zeitgeist o l’Entfremdung, l’intelligenza proteiforme e prensile del professor Magris ha già individuato ed estratto il nocciolo della questione, la reliquia vivente di quel pensiero privo di noccioli: trattasi di cazzata."
"...Mentre per andare sul popolare, anzi sul molto popolare c'era sempre Dario Fo, sui cui si potrebbe anche aprire una parentesi: perché lo sapevamo tutti che fo era un guitto formidabile, un istrione eccezionale. E quando Fo "fa" il suo numero medievale in cui racconta e mima storie di frati e di contadini, storie materiali e carnali, di maiali e truogoli, "el pursèl in tel smerdasso", c'è davvero da farsela addosso per la sua gigioneria terrigna e anzi fangosa, per l'allegria contagiosa del letame quando un frate ci cade dentro."
Da "Venerati maestri" di Edmondo Berselli , "un libro per ridere su una cultura da piangere”.
martedì 5 agosto 2008
Leggere romanzi
"...Non intendo che tutti dovremmo leggere romanzi rosa o thriller (però se è questo che volete leggere per me va benissimo, perché ...Ascoltate , vi confesserò una cosa che nessuno vi dirà mai: se non leggete i classici o il romanzo che ha vinto l'ultimo Booker Prize non vi succederà niente di male; e soprattutto, se li leggete non vi succederà niente di straordinario); voglio dire soltanto che voltare le pagine non dovrebbe essere come arrancare in un denso pantano ..."
Nick Hornby
Nick Hornby
lunedì 4 agosto 2008
Oriana Fallaci
Ecco, su Oriana sai come la penso, non mi piace la sua violenza verbale, ma sul fatto che sia stata una grande giornalista e che sapesse scrivere non si discute. Sull'Islam l'unico insegnamento che terrei per buono è quello di non aver paura: non aver paura di conoscere, di studiare, di parlare, di incontrarli un domani al matrimonio dei nostri figli o in ufficio, ma anche di mandare in scena un'opera come l'Idomeneo o di ospitare uno come Rushdie, di inserire nella Carta europea che le nostre radici sono cristiane;
invece mi pare che il non aver paura si esprima solo in certe sconsiderate azioni militari invece che nei nostri comportamenti quotidiani che invece virano sempre più pericolosamente verso il timore dell'altro con conseguenze disastrose: quando mostri di aver paura hai già perso. Puoi bombardare tutto l'Iraq o l'Iran, ma il vero confronto nei prossimi anni sarà in Europa non in Iraq.
Pax et bonum
invece mi pare che il non aver paura si esprima solo in certe sconsiderate azioni militari invece che nei nostri comportamenti quotidiani che invece virano sempre più pericolosamente verso il timore dell'altro con conseguenze disastrose: quando mostri di aver paura hai già perso. Puoi bombardare tutto l'Iraq o l'Iran, ma il vero confronto nei prossimi anni sarà in Europa non in Iraq.
Pax et bonum
sabato 2 agosto 2008
Neve e Alexis
"Io adesso sono molto felice. Non voglio assolutamente diventare un eroe. Sognare l'eroismo è la consolazione degli infelici. E poi gente come noi, per fare qualcosa di eroico, o uccide qualcuno o si uccide."
Orhan Pamuk " Neve"
“Quando scoprì leggendolo su alcuni libri, che dal momento in cui il fiocco di neve si cristallizza in cielo a forma di una stella a sei braccia, e poi scende a terra e scompare perdendo il suo aspetto, passano circa otto, dieci minuti, e venendo a sapere che ogni fiocco di neve si modella grazie al vento, al freddo, all’altezza delle nuvole, ma anche a tanti altri fattori misteriosi e incomprensibili, intuì che tra i fiocchi di neve e gli uomini c’era una relazione.
...Ogni persona doveva avere un suo fiocco di neve, in cui c’era una mappa interna della sua vita.”
Orhan Pamuk " Neve"
"E ora ti dico addio. Penso con infinita dolcezza, alla tua bontà femminile, o piuttosto materna: ti lascio con dispiacere , ma invidio il tuo bambino. eri il solo essere davanti al quale mi ritenessi colpevole, ma scrivere la mia vita mi conferma in me stesso; finisco per compiangerti senza condannarmi con severità. Ti ho tradita; non ho voluto ingannarti. Tu sei di quelle che scelgono sempre, per dovere, il cammino più stretto e più difficile: non voglio, implorando la tua pietà darti un pretesto per sacrificarti di più. Non avendo saputo vivere secondo la morale comune, cerco, almeno, di essere in accordo con la mia: è al momento in cui si respingono tutti i principi, che conviene munirsi di scrupoli. Avevo assunto nei tuoi riguardi impegni imprudenti che la vita avrebbe disdetto: ti chiedo scusa, il più umilmente possibile, non tanto di lasciarti, quanto di essere rimasto così a lungo.”
Yourcenar “Alexis”
“,,...e abbiamo, ogni volta che ci si addormenta, la sensazione di affidarci a un amico.
Lo so bene, è un amico infedele, come tutti gli altri; quando siamo troppo infelici anche lui ci abbandona. Ma sappiamo che ritornerà i, forse sotto un altro nome, e che finiremo per riposare in lui”
Yourcenar “Alexis”
Orhan Pamuk " Neve"
“Quando scoprì leggendolo su alcuni libri, che dal momento in cui il fiocco di neve si cristallizza in cielo a forma di una stella a sei braccia, e poi scende a terra e scompare perdendo il suo aspetto, passano circa otto, dieci minuti, e venendo a sapere che ogni fiocco di neve si modella grazie al vento, al freddo, all’altezza delle nuvole, ma anche a tanti altri fattori misteriosi e incomprensibili, intuì che tra i fiocchi di neve e gli uomini c’era una relazione.
...Ogni persona doveva avere un suo fiocco di neve, in cui c’era una mappa interna della sua vita.”
Orhan Pamuk " Neve"
"E ora ti dico addio. Penso con infinita dolcezza, alla tua bontà femminile, o piuttosto materna: ti lascio con dispiacere , ma invidio il tuo bambino. eri il solo essere davanti al quale mi ritenessi colpevole, ma scrivere la mia vita mi conferma in me stesso; finisco per compiangerti senza condannarmi con severità. Ti ho tradita; non ho voluto ingannarti. Tu sei di quelle che scelgono sempre, per dovere, il cammino più stretto e più difficile: non voglio, implorando la tua pietà darti un pretesto per sacrificarti di più. Non avendo saputo vivere secondo la morale comune, cerco, almeno, di essere in accordo con la mia: è al momento in cui si respingono tutti i principi, che conviene munirsi di scrupoli. Avevo assunto nei tuoi riguardi impegni imprudenti che la vita avrebbe disdetto: ti chiedo scusa, il più umilmente possibile, non tanto di lasciarti, quanto di essere rimasto così a lungo.”
Yourcenar “Alexis”
“,,...e abbiamo, ogni volta che ci si addormenta, la sensazione di affidarci a un amico.
Lo so bene, è un amico infedele, come tutti gli altri; quando siamo troppo infelici anche lui ci abbandona. Ma sappiamo che ritornerà i, forse sotto un altro nome, e che finiremo per riposare in lui”
Yourcenar “Alexis”
La distanza
“Nei viaggi di un tempo, quando la distanza non poteva esser vinta senza fatica, ma la fatica veniva compensata in parte dall’agio con cui si potevano osservare i paesi che si percorrevano e in parte dalla felicità delle ore della sera, quando, dal colmo dell’ultima collina appena scrinata, il viaggiatore scorgeva nella valle il paese immoto in cui avrebbe riposato, le case sparse sui prati, presso il rivo; oppure, quando dalla svolta a lungo attesa nella fuga polverosa della strada, vedeva le torri d’una qualche città famosa svaporare all’ora del tramonto - ore di piacere calmo e intenso con le quali non ha nulla a che vedere, per la maggior parte degli uomini, l’arrivo forsennato a una stazione ferroviaria - in quei tempi lontani, ripeto, quando si doveva indovinare o ricordare qualcosa di più che non fosse una nuova forma di tettoia di cristallo o cancellata di ferro nel luogo d’arrivo, erano pochi i momenti il cui ricordo fosse più caro al viaggiatore di quello che lo conduceva in vista di Venezia, allorché la sua gondola sortiva dal canale di Mestre nell’aperta laguna.”
John Ruskin (1850)
John Ruskin (1850)
venerdì 1 agosto 2008
Accadde a Cortina di Goffredo Parise
ACCADDE A CORTINA
di Goffredo Parise
In una pubblicità televisiva appaiono alcune sequenze di sciatori in neve fresca: non so dove. Appaiono e scompaiono perché l’immagine dura molto poco, quanto basta per darmi ogni volta un’emozione molto forte, come di innamoramento, che mi fa bere quelle immagini così come si beve, cercando di possederne sempre il mistero, il volto della persona amata. È quello che io chiamo il mio amore per lo sci. Non è l’amore per la tecnica dello sci, né in particolare per la montagna, che infatti amo solo d’inverno, quando è coperta di neve, ma qualche cosa di molto più semplice e di molto più complesso che potrei impropriamente chiamare solitudine.
Mi piace molto sciare da solo, anche se è sconsigliato e non è raccomandabile mai, specie se fuori pista e in luoghi dove nessuno può soccorrerti nel caso anche di un minimo incidente. Sciare fuori pista, in neve fresca, tra i boschi e dove non si incontra gente può essere infatti molto pericoloso. Ma in quei momenti non importa. Basta una sciocchezza a un attacco, un minimo particolare tecnico che non funziona e si può rischiare di passare la notte al gelo, di essere introvabili, di morire. Non importa. Non posso dire dunque che il mio amore per lo sci è amore del rischio, ma appunto amore di qualche ora di solitudine e di bellezza.
Sopravvive naturalmente qualche cosa di infantile nel mio amore per lo sci, qualche cosa che non è mai stato appagato perché quando cominciai a sciare io, nell’inverno del 1945, nonostante l’età (avevo quindici anni) e l’entusiasmo un po’ canino che si ha a quell’età, la giornata di sci pura e intensa, senza mai fermarsi, non era mai veramente appagata.
Si finiva alla sera, di solito la sera della domenica, per tornare a casa con i mezzi di fortuna di allora, esausti, felici anche, ma mai veramente appagati. C’era sempre qualche cosa di inappagato: non essere riusciti a imparare abbastanza bene a curvare, un "cristiania" che non era riuscito a diventare parallelo, le brevi discese, sempre troppo brevi, la mancanza di impianti e in generale il sogno (anche quello inappagato) di sciare veramente bene. Per un certo numero di anni smisi di sciare e ricominciai molto più tardi all’età di trentacinque. Mi resi conto che si doveva rifare tutto daccapo. E lo feci, con l’umiltà e la passione di quello scolaro (rarissimo) che ama la cultura per la cultura.
Accadde, come si dice, a Cortina. Per molte stagioni presi una casa in affitto e mi trasferivo lì per tutto l’inverno. Con l’aiuto di un maestro, Miccia Alverà, imparai veramente a sciare. Poi con l’aiuto di un altro, una specie di folletto, Mario Lacedelli, imparai a sciare fuori pista e in neve fresca. Raggiunsi in tarda età quello che avevo sognato a quindici anni.
E come sempre quando si raggiunge quello che si è sempre sognato, non si desidera più o non si può più andare avanti. Allora accade quello che è sempre accaduto nell’uomo: il desiderio di trasmettere agli altri non soltanto la propria tecnica, che altro non è che tecnica, ma il senso profondo, intimo e solitario di questa bellezza, l’amore per lo sci diventa l’amore di insegnare quanto è bello lo sci. È l’età. E credo avvenga per molti.
Per quanto mi riguarda negli anni scorsi ho dovuto, con piacere e dispiacere al tempo stesso, ammettere che provavo una gioia molto più grande a vedere imparare qualche mio occasionale allievo che sciare io stesso. "Ormai, quello che è fatto è fatto", mi dicevo per quanto riguardava i miei apprendimenti, la mia personale tecnica o, come è più esatto dire, la mia esperienza. Un po’ come la vita. L’esperienza, cioè gli anni, se dotati di energia a sufficienza, mi avevano dato tutto o quasi tutto sullo sci: la traversata delle Tofane fino al Valon de La Ola, un canalone molto ripido, esposto a nord, di cui non si conoscono mai le condizioni della neve fino al momento in cui si giunge sul posto; il Bus de Tofane, appunto un buco che attraversa la punta di quella montagna, in cui si penetra per scendere poi, a capofitto, è il caso di dirlo, fino al rifugio Dibona; lo Sci Diciotto e la Vallorita sul Faloria, la Armentarola, che ormai è diventata una vera e propria pista, ma anche la Marmolada, il Sestriere, la Thuile, la traversata Plateau Rosa-Zermatt, il Monte Bianco, la Mer de Clace e moltissime altre discese.
L’esperienza, dico, che, purtroppo, si acquista soltanto con l’età, quindi con il trascorrere della vita e che diminuisce, ad ogni esperienza successiva, il bagaglio di esperienze che ci è dato vivere.
Uno dei dati e dei piaceri maggiori dell’esperienza è uscire di casa al mattino e indovinare anzi "combinare" le condizioni atmosferiche nel punto in cui ci si trova e da quelle indovinare le condizioni della neve lassù, dove si è deciso di andare a sciare.
Non è facile, perché il tempo può cambiare e tutto si capovolge ma, se le condizioni rimangono quelle annunciate, si può godere del piacere della qualità della neve che si andrà a raggiungere fin dalla porta di casa. E la qualità della neve è uno, se non il primo, massimo piacere dello sci. Abbastanza raramente si può avere una qualità di neve perfetta, sia in pista, che soprattutto fuori pista. Verso primavera invece si può stare più sicuri.
La neve si è assestata durante tutto l’inverno e con qualche giornata di vento caldo si è "cotta" abbastanza, con il sole durante il giorno e gelate durante le notti ancora fredde.
Allora in marzo o aprile, se il manto nevoso è esposto a sud, già fin dal primo mattino la neve si scioglie al sole di uno, due, tre centimetri. La discesa è per così dire vergine e, con quella qualità di neve, si può sciare dovunque e con molta facilità.
Spesso si incontrano camosci e caprioli in branchi, attratti dalla prima erbetta che spunta dalla neve sciolta: fuggono alla comparsa degli uomini verso tracciati anti valanga che essi solo conoscono.
La neve di primavera è meravigliosa ma la vera, la grande, la sublime, la matematica neve è quella polverosa, microscopica neve a ghiaccioli di pieno inverno, in gennaio. Soffice e così silenziosa che non si ode alcun rumore, appena il respiro degli sci quando il corpo si alza e si abbassa rapidamente per curvare, e lo scricchiolío quando si sta fermi.
La bellezza di questa neve è nutrita dal silenzio e dalla luce: una luce fredda e purissima, radente o a picco, senza ombre, dove il blu del cielo si appoggia al candore delle vette e dei manti, e il sole è un disco bianco e rovente come la bocca di un altoforno nell’infinito.
Allora cominciare a sciare, avendo davanti a sé una lunga discesa immacolata dove nessuno è mai passato, soli, contro il sole, aspirando quel profumo quasi impercettibile che il sole estrae dalla neve, un po’ ozono, un po di iodio, ascoltando i suoni interni dei propri muscoli, del respiro, dello sguardo e soprattutto il suono della propria energia in espansione, allora, e solo allora e per pochi istanti, si può dire e ripetere e ricordare: "Sì, sono e sono stato veramente felice di vivere".
di Goffredo Parise
In una pubblicità televisiva appaiono alcune sequenze di sciatori in neve fresca: non so dove. Appaiono e scompaiono perché l’immagine dura molto poco, quanto basta per darmi ogni volta un’emozione molto forte, come di innamoramento, che mi fa bere quelle immagini così come si beve, cercando di possederne sempre il mistero, il volto della persona amata. È quello che io chiamo il mio amore per lo sci. Non è l’amore per la tecnica dello sci, né in particolare per la montagna, che infatti amo solo d’inverno, quando è coperta di neve, ma qualche cosa di molto più semplice e di molto più complesso che potrei impropriamente chiamare solitudine.
Mi piace molto sciare da solo, anche se è sconsigliato e non è raccomandabile mai, specie se fuori pista e in luoghi dove nessuno può soccorrerti nel caso anche di un minimo incidente. Sciare fuori pista, in neve fresca, tra i boschi e dove non si incontra gente può essere infatti molto pericoloso. Ma in quei momenti non importa. Basta una sciocchezza a un attacco, un minimo particolare tecnico che non funziona e si può rischiare di passare la notte al gelo, di essere introvabili, di morire. Non importa. Non posso dire dunque che il mio amore per lo sci è amore del rischio, ma appunto amore di qualche ora di solitudine e di bellezza.
Sopravvive naturalmente qualche cosa di infantile nel mio amore per lo sci, qualche cosa che non è mai stato appagato perché quando cominciai a sciare io, nell’inverno del 1945, nonostante l’età (avevo quindici anni) e l’entusiasmo un po’ canino che si ha a quell’età, la giornata di sci pura e intensa, senza mai fermarsi, non era mai veramente appagata.
Si finiva alla sera, di solito la sera della domenica, per tornare a casa con i mezzi di fortuna di allora, esausti, felici anche, ma mai veramente appagati. C’era sempre qualche cosa di inappagato: non essere riusciti a imparare abbastanza bene a curvare, un "cristiania" che non era riuscito a diventare parallelo, le brevi discese, sempre troppo brevi, la mancanza di impianti e in generale il sogno (anche quello inappagato) di sciare veramente bene. Per un certo numero di anni smisi di sciare e ricominciai molto più tardi all’età di trentacinque. Mi resi conto che si doveva rifare tutto daccapo. E lo feci, con l’umiltà e la passione di quello scolaro (rarissimo) che ama la cultura per la cultura.
Accadde, come si dice, a Cortina. Per molte stagioni presi una casa in affitto e mi trasferivo lì per tutto l’inverno. Con l’aiuto di un maestro, Miccia Alverà, imparai veramente a sciare. Poi con l’aiuto di un altro, una specie di folletto, Mario Lacedelli, imparai a sciare fuori pista e in neve fresca. Raggiunsi in tarda età quello che avevo sognato a quindici anni.
E come sempre quando si raggiunge quello che si è sempre sognato, non si desidera più o non si può più andare avanti. Allora accade quello che è sempre accaduto nell’uomo: il desiderio di trasmettere agli altri non soltanto la propria tecnica, che altro non è che tecnica, ma il senso profondo, intimo e solitario di questa bellezza, l’amore per lo sci diventa l’amore di insegnare quanto è bello lo sci. È l’età. E credo avvenga per molti.
Per quanto mi riguarda negli anni scorsi ho dovuto, con piacere e dispiacere al tempo stesso, ammettere che provavo una gioia molto più grande a vedere imparare qualche mio occasionale allievo che sciare io stesso. "Ormai, quello che è fatto è fatto", mi dicevo per quanto riguardava i miei apprendimenti, la mia personale tecnica o, come è più esatto dire, la mia esperienza. Un po’ come la vita. L’esperienza, cioè gli anni, se dotati di energia a sufficienza, mi avevano dato tutto o quasi tutto sullo sci: la traversata delle Tofane fino al Valon de La Ola, un canalone molto ripido, esposto a nord, di cui non si conoscono mai le condizioni della neve fino al momento in cui si giunge sul posto; il Bus de Tofane, appunto un buco che attraversa la punta di quella montagna, in cui si penetra per scendere poi, a capofitto, è il caso di dirlo, fino al rifugio Dibona; lo Sci Diciotto e la Vallorita sul Faloria, la Armentarola, che ormai è diventata una vera e propria pista, ma anche la Marmolada, il Sestriere, la Thuile, la traversata Plateau Rosa-Zermatt, il Monte Bianco, la Mer de Clace e moltissime altre discese.
L’esperienza, dico, che, purtroppo, si acquista soltanto con l’età, quindi con il trascorrere della vita e che diminuisce, ad ogni esperienza successiva, il bagaglio di esperienze che ci è dato vivere.
Uno dei dati e dei piaceri maggiori dell’esperienza è uscire di casa al mattino e indovinare anzi "combinare" le condizioni atmosferiche nel punto in cui ci si trova e da quelle indovinare le condizioni della neve lassù, dove si è deciso di andare a sciare.
Non è facile, perché il tempo può cambiare e tutto si capovolge ma, se le condizioni rimangono quelle annunciate, si può godere del piacere della qualità della neve che si andrà a raggiungere fin dalla porta di casa. E la qualità della neve è uno, se non il primo, massimo piacere dello sci. Abbastanza raramente si può avere una qualità di neve perfetta, sia in pista, che soprattutto fuori pista. Verso primavera invece si può stare più sicuri.
La neve si è assestata durante tutto l’inverno e con qualche giornata di vento caldo si è "cotta" abbastanza, con il sole durante il giorno e gelate durante le notti ancora fredde.
Allora in marzo o aprile, se il manto nevoso è esposto a sud, già fin dal primo mattino la neve si scioglie al sole di uno, due, tre centimetri. La discesa è per così dire vergine e, con quella qualità di neve, si può sciare dovunque e con molta facilità.
Spesso si incontrano camosci e caprioli in branchi, attratti dalla prima erbetta che spunta dalla neve sciolta: fuggono alla comparsa degli uomini verso tracciati anti valanga che essi solo conoscono.
La neve di primavera è meravigliosa ma la vera, la grande, la sublime, la matematica neve è quella polverosa, microscopica neve a ghiaccioli di pieno inverno, in gennaio. Soffice e così silenziosa che non si ode alcun rumore, appena il respiro degli sci quando il corpo si alza e si abbassa rapidamente per curvare, e lo scricchiolío quando si sta fermi.
La bellezza di questa neve è nutrita dal silenzio e dalla luce: una luce fredda e purissima, radente o a picco, senza ombre, dove il blu del cielo si appoggia al candore delle vette e dei manti, e il sole è un disco bianco e rovente come la bocca di un altoforno nell’infinito.
Allora cominciare a sciare, avendo davanti a sé una lunga discesa immacolata dove nessuno è mai passato, soli, contro il sole, aspirando quel profumo quasi impercettibile che il sole estrae dalla neve, un po’ ozono, un po di iodio, ascoltando i suoni interni dei propri muscoli, del respiro, dello sguardo e soprattutto il suono della propria energia in espansione, allora, e solo allora e per pochi istanti, si può dire e ripetere e ricordare: "Sì, sono e sono stato veramente felice di vivere".
Il tuffatore
Dopo Castelreggio c’è una cava, e un molo con un nastro trasportatore
arrugginito. Il vecchio con i capelli bianchi saliva sul punto più alto, si
concentrava, si tuffava all’indietro ed entrava in acqua senza uno spruzzo.
Era stato un campione olimpico, poi aveva insegnato in una scuola di
nuoto, si era sposato, aveva avuto dei figli, anche dei nipotini che vedeva
qualche volta a Natale; la moglie era morta in un incidente stradale.
Il vecchio aspettava ogni anno l’inizio dell’estate. Si tuffava di
spalle. Si concentrava proprio come alle Olimpiadi, quando aveva vinto la
medaglia d’oro, eseguiva la capriola e entrava in acqua perfettamente. Ogni
mattina, anche se pioveva, si tuffava. Prima di lanciarsi nel vuoto,
ripensava alla sua vita, ripensava al momento in cui era stato un campione:
al confronto gli altri momenti della vita gli erano sembrati poco.
Una mattina d’agosto incontrò dei ragazzi che usavano quel trampolino, si
spingevano, si buttavano in mare a candela. Il vecchio li guardò in
silenzio, non sapevano tuffarsi, rischiavano la vita. Voleva dire loro
qualcosa, poi pensò che si divertivano, che lo avrebbero preso in giro.
Raccolse l’asciugamano e se ne andò.
arrugginito. Il vecchio con i capelli bianchi saliva sul punto più alto, si
concentrava, si tuffava all’indietro ed entrava in acqua senza uno spruzzo.
Era stato un campione olimpico, poi aveva insegnato in una scuola di
nuoto, si era sposato, aveva avuto dei figli, anche dei nipotini che vedeva
qualche volta a Natale; la moglie era morta in un incidente stradale.
Il vecchio aspettava ogni anno l’inizio dell’estate. Si tuffava di
spalle. Si concentrava proprio come alle Olimpiadi, quando aveva vinto la
medaglia d’oro, eseguiva la capriola e entrava in acqua perfettamente. Ogni
mattina, anche se pioveva, si tuffava. Prima di lanciarsi nel vuoto,
ripensava alla sua vita, ripensava al momento in cui era stato un campione:
al confronto gli altri momenti della vita gli erano sembrati poco.
Una mattina d’agosto incontrò dei ragazzi che usavano quel trampolino, si
spingevano, si buttavano in mare a candela. Il vecchio li guardò in
silenzio, non sapevano tuffarsi, rischiavano la vita. Voleva dire loro
qualcosa, poi pensò che si divertivano, che lo avrebbero preso in giro.
Raccolse l’asciugamano e se ne andò.
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