Dopo una giornata trascorsa tra i padiglioni della Biennale, gli allestimenti all’Arsenale e la mostra al Correr “Da Rauschenberg a Murakami, 1964-2003” mi sono affacciato a una finestra che si trova lungo la Riva degli Schiavoni. Riflettevo su quanto visto. Davanti a me, nella luce rossastra del tramonto, l’andirivieni nel Bacino di San Marco e il viavai cosmopolita fra il ponte della Paglia e quello dei Greci.
“Less oil more courage” è la scritta incontrata nel padiglione italiano su un piccolo quadro di Rirkrit Tiravanija. L’inglese è sempre una lingua efficace per gli slogan.
A pochi passi “Silicone e polistirolo” di Rudolf Stingel. Mettere a disposizione una superficie su cui ognuno può incidere la propria frase o conficcare la bottiglietta d’acqua minerale o il il suo biglietto da visita seduce. Io ho scritto l’indirizzo del mio sito Internet, poi mi sono ricordato che anche all’asilo di mia figlia c’è una parete su cui ognuno può disegnare ciò che vuole.
18.000 pillole fatte a mano sono l’opera di Dunia Hirst. In effetti la società occidentale è alla continua ricerca di pillole per i propri mali fisici e psichici. Riprodurre 18.000 volumi, qualcuno in più di quelli intagliati dal Pianta alla Scuola grande di San Rocco, non sarebbe stato attuale.
Don Graham fa girare i visitatori fra due specchi in cui ognuno può vedere la propria immagine “ritardata” dalla ripresa video. Si esiste perché si è un’immagine, come Narciso.
Un temenos formato da sei plasma è l’installazione di Amit Goren. Uno si siede al centro è viene bombardato da immagini e suoni. Un po’ come a casa, quando tua moglie accende l’aspirapolvere mentre guardi la partita.
“L’auto si riempie di sentimenti durante il viaggio? È una delle 300 domande personali, raccolte da Peter Fischli in vent’anni, proiettate in varie lingue all’interno di una camera oscura. Nel buio ogni domanda diventa più profonda di quel che sembra.
Non mi ricordo più chi disse che in fondo ognuno di noi è un numero, ma sicuramente Stanislaw Dkozdz si è concentrato sull’argomento. Il padiglione polacco ha le pareti ricoperte da 300.000 dadi. Al centro, su un tavolo da biliardo, cinque dadi per 46.656 combinazioni possibili.
Fuori dal padiglione mi sono accorto di una signora che, esausta, sonnecchiava sotto un melo. A pochi metri da lei uno scheletro si specchiava appoggiato a un vecchio comò. Insieme erano una vera opera d’arte.
Ne “La Zona” curata da Massimiliano Gioni un filmato riprendeva i volti di vari ragazzi impegnati a dire: “Non farò figli per questo paese”. Un altro filmato di mezz’ora “esplorava gli ultimi attimi di vita di un cane.”
In sintonia il padiglione svizzero: il video di Emanuelle Antille mostra dei ragazzi che pestano a sangue un gatto fino ad ucciderlo un gatto. Un altro filmato, invece, riprende l’agonia di un’anziana signora assistita dalla figlia. Stessa logica della tv del dolore?
Si respira nel padiglione della Danimarca trasformato in un vitale caleidoscopio da Olafur Eliasson.
All’Arsenale “Hotel Capsula” di Ozawa riproduce il luogo dove dormono i giapponesi che lavorano a Tokyo e la sera non riescono tornare a casa: un cubo di legno e stoffa. Al Museo Correr c’è un quadro che vale la visita se amate Guttuso: “La Vucciria”.
Per vedere un popolo più metafisico di quello del mercato di Palermo, invece, bisogna tornare ai Giardini, al padiglione israeliano. “Against Order? Against disorder?” di Michal Rowner ci mostra omini che vanno e che vengono, che girano intorno e poi si disperdono, figure uguali che ruotano su sé stesse. Ho chiesto se fosse una metafora della diaspora ebraica. Mi hanno assicurato che non è così, l’opera invita riflettere su bio-tecnologie, clonazione e nuovo ordine mondiale. Prendo atto. Guardo il bacino di San Marco: le barche si incrociano, si affiancano, poi si disperdono. Sotto di me centinaia di teste continuano a formicolare. Cinque turisti sul ponte dei Greci fotograno lo stesso soggetto: il tramonto.
Ci muoviamo tutti, in continuazione, ma verso cosa? “Against Order? Against disorder?”
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