mercoledì 8 dicembre 2010

La tempesta


La tempesta sta per scatenarsi alle spalle della donna. Lei mi trafigge con lo sguardo, quasi a dirmi “So perché sei qui”. Mi muovo, i suoi occhi mi seguono. Perché guarda solo me fra tutte le persone in questa stanza? “Non hai niente di meglio da fare?” penso stizzita, “metti in salvo tuo figlio e smettila di fissarmi”. Sono tesa. Cerco di concentrarmi su quello che devo fare, ma quello sguardo che scruta mi mette a disagio. Il che è davvero stupido, mi dico. Una figura dipinta non può leggere nel pensiero, farti sentire in colpa. Forse è un segno. Forse non avrei dovuto accettare questo lavoro. Io, capace di rubare un quadro famoso? La sala del museo si riempie. Ora un gruppo di sedicenni allampanati e rumorosi mi separa dal dipinto. L’insegnante che li accompagna cerca inutilmente di mantenere l’ordine. Devo sbrigarmi, sto perdendo tempo. Ringrazio in silenzio gli studenti. La loro confusione mi permette di guardare intorno senza essere notata, spero. Il sistema d’allarme è invisibile, ma so dov’è e come disattivarlo. Sono mesi che mi preparo. Questo è l’ultimo sopralluogo, per essere sicura che niente sia cambiato. L’unica cosa a cambiare sarà la mia vita dopo questo furto. Qualunque sia il suo esito. Qualunque. La ressa davanti al quadro aumenta. Gli studenti rumorosi e la loro insegnante disperata lasciano il posto a una guida che brandisce un ombrello e raduna un gregge di turisti giapponesi. Nonostante il divieto di fotografare, scattano a più non posso. L’immagine di quei flash che accecano la donna del dipinto mi dà un piacere cinico. Mi concentro sulle vie di fuga. Due porte sul fondo della sala portano alla sala seguente, l’ultima. Tre finestre guardano il fiume. La quarta, più piccola, si affaccia su una terrazza. E’ da lì che me ne andrò. I giapponesi si spostano veloci nella sala che segue. Chissà cosa resterà loro di questo dipinto. Al massimo qualche foto e un ricordo confuso fra altri ricordi. Senza neppure accorgersi di quello sguardo che giudica. “Magnetico, non trova?” Occhi azzurri, vivaci e pungenti, un sorriso aperto. Giacca in tweed, un pacco di riviste sotto il braccio. Non un visitatore, non un turista, ma uno che sembra appartenere a questo luogo. “Ogni volta che attraverso questa sala, quegli occhi mi costringono a fermarmi. E ogni volta finisce che mi sento come uno studente ad un esame”. “Allora non sono l’unica ad avere questa sensazione” dico allo sconosciuto, e penso “...quindi la donna del dipinto non sta giudicando proprio me, non mi sta dicendo: non farlo!”. Esulto in silenzio. “Se lei sapesse quanti si fermano a osservare questo quadro per ore, cercando di comprenderne l’essenza. Qual è il segreto della dignità di quella donna? Forse è il suo essere madre a proteggerla da una natura minacciosa e a darle il potere di leggere le nostre anime? Mi creda, lavoro qui da anni, e ho conosciuto persone ossessionate da quello sguardo, che in qualche modo mette a nudo la nostra coscienza. Occhi che ci costringono a riconoscere verità che neghiamo anche a noi stessi.” Non mi piace la piega presa dalla conversazione. E non è il caso di perdere tempo a parlare con uno che potrebbe poi ricordarsi di me. Taglio corto, lascio cadere un commento banale: “D’altra parte è il capolavoro di un grande maestro...se è così famoso, un motivo ci deve pur essere...”. Lo sconosciuto sorride, si guarda attorno, si avvicina e sussurra: “E pensi che è solo una copia”.
Lucia Zennaro

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