sabato 19 febbraio 2011

La morte e il ricciolo di burro


Alle volte capita che i titoli delle conferenze siano interessanti ma che i relatori non lo siano altrettanto. In una Venezia tamburellata dalla pioggia, in una “sala grande”, grande appena due volte il mio salotto, in un'aria di bianchi neon e pavimento in linoleum si apre l’incontro “La concezione della morte in India: i molteplici aspetti di una antica scienza tanatologica ancora vivente”. Il relatore non è uno alla Tiziano Terzani o alla Gino Strada: comincia parlando di sè: io qui, io lì, io su, io giù. Poi con i fogli sottomano svolge il compito rivolgendosi al pubblico con sussiego e lentezza. La morte in India è morte a uno stato precedente, una porta nella quale si entra per entrare in un’altra condizione. Un passaggio non istantaneo ma che ha una sua durata nel tempo. Ad esso l’individuo si avvicina con un progressivo ritirarsi di alcuni funzioni vitali : nelle Upanishad Chandogya si dice che con il passare degli anni la luce degli occhi si ritira verso il cuore, le orecchie sentono sempre meno, i capelli diventano bianchi...ci si prepara al grande salto. In sogno appare Kalaratri a cavallo di un asino, ha i capelli scompigliati, terribili fiamme escono dal suo naso, due delle sue quattro mani impugnano una falce e un pugnale. Ma quando il corpo di una persona può dirsi veramente morto? L’assenza del respiro e del battito del cuore non sono sufficienti. È la temperatura del corpo che risulta decisiva: i familiari mettono un ricciolo di burro sulla fronte del morente, quando non si scioglie più il corpo è pronto per il rito funebre. Sui ghat di Benares (città definita da professor Sussiego un “campo di cremazione”) i familiari circondano per dieci giorni la salma di profumi, ghirlande di fiori, dolci musiche e offrono palline di riso per formare il nuovo corpo che porterà il viaggiatore in cielo verso il mondo degli antenati. Invece il defunto il cui corpo non venga ritrovato e onorato si trasforma in un pishacha, uno spirito senza pace e affamato.
L’incontro con professor Sussiego volge al termine, la pioggia continua a tamburellare, cerco nella borsa Ritorno dall’India di Abraham Yehoshua, le splendide pagine dedicate a Benares: “Quando ormai era calata l’oscurità, il piccolo facchino mi condusse verso un ghat in cui bruciavano i morti. Prima vidi i pellegrini gettare fiori e dolciumi in un pozzo; e da una certa distanza, perché il mio accompagnatore mi aveva risolutamente invitato a non avvicinarmi, mi soffermai a lungo a osservare quel cadavere che ardeva su una catasta di legna, attorno cui sedevano in circolo i parenti, confabulando a bassa voce. Attesi fino al momento in cui il rogo si estinse, quando in quella luce incerta, al lume di una torcia , i familiari si alzarono e si avvicinarono lentamente alle ceneri e trovato il teschio lo ruppero, per liberare l’anima verso il fiume; quindi raccolsero le ceneri, e le sparsero sull’acqua.”

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