sabato 1 dicembre 2012

Non esistono delitti perfetti


- Soffro di vertigini, era proprio necessario questo viaggio.
- La tengo io architetto non abbia paura. Guardi, da qui si vedono bene le due anime di Vittorio Veneto, quella che a sud abbraccia la pianura è Ceneda, quella che serra la Val Lapisina a nord è Serravalle. L’ingegner Enrico Forlanini, colletto aperto e cravatta scozzese, teneva sottobraccio l’architetto Santos Dumont con la faccia seminascosta nel paletot nero. Affacciati ad una delle finestre della gondola in alluminio si tenevano i Panama incollati alla testa; Forlanini con la sinistra, Dumont con la destra. Il dirigibile era a circa trecento metri d’altezza, le valvole non segnalavano perdite di pressione, le isoterme e le isòtere si comportavano a dovere, era una bella giornata di settembre del 1911.
- Sorvoliamo la zona di Sant’Andrea, vede quello è uno dei piloni della teleferica dell’Italcementi che collega lo stabilimento con la cava del monte Pizzoc.
Con Nico ci troviamo sul luogo del delitto, in piazza della Fontana a due passi dallo Spazio Italcementi, uno dei luoghi di Comodamente: ha ospitato feste di apertura e chiusura e incontri con fabbricatori d’idee. Il delitto su cui s’indaga è un delitto mnemonico: ricordi orali zero. Ma non esistono delitti perfetti, anche ciò che sembra non aver più traccia ha traccia. Al bar Fontana buio sull’Italcementi, quella che cavalca il Meschio stretta tra il monte Malcanton e la statale Cinquantuno, quella riaperta per ospitare i fabbricatori d’idee, è stata chiusa fra le due guerre, stop. Certo non dev’essere stato facile lavorare in quel posto pieno di polvere, fumo e acqua nell’aria. Prendete un caffè?
Nel 1858 la Società delle Strade Ferrate Lombardo Venete, constatata l’abbondanza  di calce delle nostre colline e la possibilità di un’agevole estrazione, vi impiantò uno stabilimento in via delle Fornaci poi ceduto a un veneziano di origine francese ing. Ottavio Croze. Ciò diede avvio ad un’attività sempre più importante sul piano industriale mentre prima, nella Val Lapisina (lapis in greco vuol dire pietra) e nel resto del circondario, erano operanti solo modeste calchere di calce grassa.
Ci hanno detto che all’Italcementi di via delle Fornaci qualche volta è aperto, forse possono darci delle informazioni. C’incamminiamo lungo il Meschio, c’è anche Claudio che ha portato un libro, Il patrimonio industriale tra passato e futuro.
Ragioniamo intorno a un possibile titolo: Una storia di Pietra e Acqua, Memoria e Materia, Storie di Cemento, Fabbricatori d’idee, Non esistono delitti perfetti. Poi è Claudio che racconta del collegamento con il Vajont che sembra lontano, che sembra un’altra storia e invece no. Tra Vittorio e Longarone una linea d’acqua: le centrali idroelettriche di Nove e Fadalto con le lampade in ferro battuto e vetro di Murano, quelle piccole di San Floriano e Castelletto, poi salendo dopo il lago di Santa Croce quella maledetta diga che divorò 2000 persone. Nell’Italcementi di Serravalle l’acqua impetuosa del Meschio serviva a far girare le macine che polverizzavano la pietra cotta nei forni, vengono in mente i granelli di polvere che turbinano in un raggio di sole in una stanza buia (Lucrezio citato da Calvino nelle Lezioni Americane).
Il dirigibile ora è proprio sopra Piazza della Fontana a Serravalle, crocchi di uomini e donne guardano all’insù con meraviglia.
Lo stabilimento di Serravalle fu aperto nel 1878 dai soci Gianbattista Bonaldi e Domenico Balliana. Nell’83 l’Italcementi, chiamata allora Società Bergamasca dei Cementi e della Calce Idraulica, fondata da Giuseppe Piccinelli, lo rilevò insieme a quello di via Fornaci. Iniziarono radicali opere di ristrutturazione che aprirono la strada alla sperimentazione di nuovi materiali sui nuovi edifici, analogamente a quanto avvenuto negli stabilimenti lombardi della società. Alla fine del secolo a Vittorio Veneto l’azienda produceva 100.000 quintali di cemento e 30.000 di calce idraulica, dando lavoro a più di 230 operai.
- Architetto, su faccia uno sforzo, non sa cosa si perde, guardi le tettoie, sette volte sottili in calcestruzzo cementizio armato a botte ad arco ribassato estradossale con tiranti in ferro, poggianti su murature miste di pietra e mattoni a loro volta costituite da pilastri collegati da archi. Certo che il Pesenti è proprio geniale, e non dimentichiamo gli amici Isamberto Brunnel e il suo serbatoio in calcestruzzo cinghiato in ferri piatti, e Joseph Louis Lambot e la sua barca.
- Ricordiamoli pure ingegnere, ma vediamo di scendere presto da qua.
- Non si agiti, mantenga il controllo architetto, respiri profondo, non le dà un senso d’eternità pensare che nulla muore per davvero, il cemento che qui partiva seppellito nei sacchi ora vive in giro per il mondo, chiese, moschee, strade, palazzi, architetto tutto si reincarna, si cementa in qualcosa d’altro, nulla muore.
- Qui mi reincarno io ingegnere se lei non mi fa scendere.
Le nostre ombre si proiettano sui cancelli grigioarancioni dell’Italcementi in via delle Fornaci: al numero trenta la telecamera è spenta, il campanello suona a vuoto. Tutto questo cemento che altro diventerà?

Nota: per la parte storica sono state liberamente macinate e cementate le informazioni raccolte in Vittorio Veneto tra Ottocento e Novecento di Mario Ulliana, edizioni Canova, e in Il patrimonio industriale tra passato e futuro – un’esperienza didattica a Vittorio Veneto, a cura di Daniela Mazzotta, edizioni Il Poligrafo.
(Foto Nico Covre)

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