- Soffro di vertigini, era proprio necessario
questo viaggio.
- La tengo io architetto non abbia paura.
Guardi, da qui si vedono bene le due anime di Vittorio Veneto, quella che a sud
abbraccia la pianura è Ceneda, quella che serra la Val Lapisina a nord è
Serravalle. L’ingegner Enrico Forlanini, colletto aperto e cravatta scozzese,
teneva sottobraccio l’architetto Santos Dumont con la faccia seminascosta nel
paletot nero. Affacciati ad una delle finestre della gondola in alluminio si
tenevano i Panama incollati alla testa; Forlanini con la sinistra, Dumont con
la destra. Il dirigibile era a circa trecento metri d’altezza, le valvole non
segnalavano perdite di pressione, le isoterme e le isòtere si comportavano a
dovere, era una bella giornata di settembre del 1911.
- Sorvoliamo la zona di Sant’Andrea, vede
quello è uno dei piloni della teleferica dell’Italcementi che collega lo
stabilimento con la cava del monte Pizzoc.
Con Nico ci troviamo sul luogo del delitto, in
piazza della Fontana a due passi dallo Spazio Italcementi, uno dei luoghi di
Comodamente: ha ospitato feste di apertura e chiusura e incontri con
fabbricatori d’idee. Il delitto su cui s’indaga è un delitto mnemonico: ricordi
orali zero. Ma non esistono delitti perfetti, anche ciò che sembra non aver più
traccia ha traccia. Al bar Fontana buio sull’Italcementi, quella che cavalca
il Meschio stretta tra il monte Malcanton e la statale Cinquantuno, quella
riaperta per ospitare i fabbricatori d’idee, è stata chiusa fra le due guerre,
stop. Certo non dev’essere stato facile lavorare in quel posto pieno di
polvere, fumo e acqua nell’aria. Prendete un caffè?
Nel 1858 la Società delle Strade Ferrate
Lombardo Venete, constatata l’abbondanza
di calce delle nostre colline e la possibilità di un’agevole estrazione,
vi impiantò uno stabilimento in via delle Fornaci poi ceduto a un veneziano di
origine francese ing. Ottavio Croze. Ciò diede avvio ad un’attività sempre più
importante sul piano industriale mentre prima, nella Val Lapisina (lapis in
greco vuol dire pietra) e nel resto del circondario, erano operanti solo
modeste calchere di calce grassa.
Ci hanno detto che all’Italcementi di via
delle Fornaci qualche volta è aperto, forse possono darci delle informazioni.
C’incamminiamo lungo il Meschio, c’è anche Claudio che ha portato un libro, Il
patrimonio industriale tra passato e futuro.
Ragioniamo intorno a un possibile titolo: Una
storia di Pietra e Acqua, Memoria e Materia, Storie di Cemento, Fabbricatori
d’idee, Non esistono delitti perfetti. Poi è Claudio che racconta del
collegamento con il Vajont che sembra lontano, che sembra un’altra storia e
invece no. Tra Vittorio e Longarone una linea d’acqua: le centrali
idroelettriche di Nove e Fadalto con le lampade in ferro battuto e vetro di Murano, quelle piccole di San Floriano e Castelletto, poi salendo dopo il lago
di Santa Croce quella maledetta diga che divorò 2000 persone. Nell’Italcementi
di Serravalle l’acqua impetuosa del Meschio serviva a far girare le macine che
polverizzavano la pietra cotta nei forni, vengono in mente i granelli di
polvere che turbinano in un raggio di sole in una stanza buia (Lucrezio citato
da Calvino nelle Lezioni Americane).
Il dirigibile ora è proprio sopra Piazza della
Fontana a Serravalle, crocchi di uomini e donne guardano all’insù con
meraviglia.
Lo stabilimento di Serravalle fu aperto nel
1878 dai soci Gianbattista Bonaldi e Domenico Balliana. Nell’83 l’Italcementi,
chiamata allora Società Bergamasca dei Cementi e della Calce Idraulica, fondata
da Giuseppe Piccinelli, lo rilevò insieme a quello di via Fornaci. Iniziarono
radicali opere di ristrutturazione che aprirono la strada alla sperimentazione
di nuovi materiali sui nuovi edifici, analogamente a quanto avvenuto negli
stabilimenti lombardi della società. Alla fine del secolo a Vittorio Veneto
l’azienda produceva 100.000 quintali di cemento e 30.000 di calce idraulica,
dando lavoro a più di 230 operai.
- Architetto, su faccia uno sforzo, non sa
cosa si perde, guardi le tettoie, sette volte sottili in calcestruzzo
cementizio armato a botte ad arco ribassato estradossale con tiranti in ferro,
poggianti su murature miste di pietra e mattoni a loro volta costituite da
pilastri collegati da archi. Certo che il Pesenti è proprio geniale, e non dimentichiamo
gli amici Isamberto Brunnel e il suo serbatoio in calcestruzzo cinghiato in
ferri piatti, e Joseph Louis Lambot e la sua barca.
- Ricordiamoli pure ingegnere, ma vediamo di
scendere presto da qua.
- Non si agiti, mantenga il controllo
architetto, respiri profondo, non le dà un senso d’eternità pensare che nulla
muore per davvero, il cemento che qui partiva seppellito nei sacchi ora vive in
giro per il mondo, chiese, moschee, strade, palazzi, architetto tutto si
reincarna, si cementa in qualcosa d’altro, nulla muore.
- Qui mi reincarno io ingegnere se lei non mi
fa scendere.
Le nostre ombre si proiettano sui cancelli
grigioarancioni dell’Italcementi in via delle Fornaci: al numero trenta la
telecamera è spenta, il campanello suona a vuoto. Tutto questo cemento che
altro diventerà?
Nota: per la parte storica sono state
liberamente macinate e cementate le informazioni raccolte in Vittorio Veneto
tra Ottocento e Novecento di Mario Ulliana, edizioni Canova, e in Il patrimonio
industriale tra passato e futuro – un’esperienza didattica a Vittorio Veneto, a cura di Daniela
Mazzotta, edizioni Il Poligrafo.
(Foto Nico Covre)
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