martedì 19 gennaio 2010

Diario afgano


Almeno per oggi restiamo qui, ci hanno trasferito in un piccolo villaggio pochi chilometri a sud. In questa terra non ci sono certezze, non ci sono alberi ma i sorrisi degli afgani valgono mille soli e le facce di alcuni vecchi sembrano antichi incunaboli ricchi di ricordi e storie da raccontare. Kamal ci ha mandato a pranzo dalla famiglia di sua sorella Hamida che ha tirato fuori uova e pomodori, le pietanze tenute per le grandi occasioni. Nel pomeriggio abbiamo giocato con un pallone di pezza con una ventina di ragazzini infagottati in panni e piccole coperte dai colori sgargianti, verde, turchese, rosso carminio, viola. La notizia che domani possiamo proseguire lungo la Route A01 è arrivata in serata. Tra poco ci infiliamo nei sacchi a pelo. Non abbiamo parlato della paura che ci afferra e ci lascia. Non accade nulla sotto i nostri occhi, ma la sensazione di vivere sul filo è sempre presente. Giancarlo è un veterano e ci infonde fiducia, Gabrielle è alla sua seconda spedizione in Afghanistan ma è la prima volta che attraversa la valle del Panshir, io mi chiedo se sto facendo la cosa giusta.
Saliamo lungo la pista del passo di Selang, verso quattromila metri e oltre, lungo strapiombi senza fine e nebbie improvvise. Cerco di non guardare alla mia sinistra. Incontriamo ogni tanto dei labashi, le squadre di uomini che lavorano affacciati sullo strapiombo per aggiustare queste strade. Passano intere settimane in quota e dormono all'aperto. Procediamo lentamente, c'è il pericolo di frane e non ci sono protezioni fra noi e il vuoto. Non mi ricordo più chi ha scritto che quando guardi l'abisso e l'abisso che guarda in te.

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