"Da
alcuni anni c’è una metafora che ha un certo successo, il concetto espresso con
rete e sistema a rete che ha investito l’intero mondo vitale (Lebenswelt), sia
che si tratti di criminalità o sport, di borsa o botanica. Ogni ambito è
collegato sia al proprio interno che con gli altri. Si può addirittura dire che
mai prima d’ora è esistito un concetto e uno strumento di conoscenza così
universale. Lo si usa quotidianamente e sul piano di una ricerca ininterrotta.
Un tassello essenziale del conoscere, senza il quale non sarebbe più possibile
descrivere le nostre esperienze. Sembra impossibile che si possa parlare
dell’attività del nostro cervello o delle azioni di un gruppo terroristico
senza nominare il termine rete.
È un concetto chiave molto diffuso, tuttavia corre il rischio di essere sia una chiave che un catenaccio, una prigione dello spirito. Direi addirittura che una crisi della nostra coscienza – della quale non ci sono indizi – dovrebbe proprio trovare la sua origine nella validità generale di questo concetto. C’è di che impazzire, dovremmo essere presi dalle vertigini di fronte alla totalità delle connessioni, non certo da meno delle fantasie di un paranoico: tutto collegato insieme. In queste fantasie sembra sparire ogni differenza fra dentro e fuori, tra pensare e cervello, tra un’operazione militare e il modo di comunicare delle formiche, fra attivo e passivo. La rete tuttavia non è una definizione metaforica, piuttosto la variazione di una cosa. Dalla rete dei pescatori a quella neuronale o elettrica quel che varia sono le proprietà strutturali e materiali. Una metafora per la rete si trova con difficoltà. Potremmo scegliere un ragno come stemma della nostra coscienza contemporanea. E la dimensione nella quale viviamo e agiamo ora, potrebbe essere chiamata in modo altisonante una Aracnotopia, secondo il nome della tessitrice greca. Sempre più potere appartiene ai ragni (la parola tedesca Spinnen significa ragni ma anche tessere, impazzire ndr). E noi guardiamo e sorvegliamo tutto come loro trasformandoci in ragnose creature della coscienza. L’allegoria si spiega facilmente, il simbolo purtroppo no. Le immagini vanno in mille pezzi come vecchi vasi. Non sono sufficienti a contenere quello che andiamo facendo e dove ci troviamo. Noi stessi non sappiamo in quale zona, in che segmento dell’invisibile tela siamo attivi, né sappiamo se con il nostro fare o non fare distruggiamo parti utili della tela oppure se al contrario ne costruiamo di nuove. E questo perché la forma che ci forma si muove senza un obiettivo definito e senz’alcuna coerenza. In questo scambio pubblico di conoscenza e avvenimenti siamo incapaci di circoscrivere il luogo in cui ci troviamo come di definire la posizione della nostra persona, i confini del soggetto. Tutto quello che sappiamo, anche il sapere del passato, lo ordiniamo ora con l’aiuto del nostro nuovo organo-tessuto, che non ha ancora un nome, del nostro sentimento reticolare. Ormai non c’è più nessuno che pensi o agisca al di fuori di una rete. In lui e intorno a lui non c’è nulla che rimanga non tessuto. E sebbene io non voglia concederle la qualità di una metafora, la rete è oggi tuttavia l’idea più feconda per la nostra autocoscienza. Altrettanto importante ed enigmatica come in passato le parole labirinto, radice, torre, marionetta, isola, il filo della vita e altri segni o tropi. Paragoni che, al contrario della rete, reclamavano una centralità non una esclusività. Noi, invece, non abbiamo un’altra immagine oltre a questa. Non conosciamo e riconosciamo niente se non attraverso i nodi. Sinapsessere (Synapsein) sarebbe quindi la parola che ci si propone per comprendere il nostro agire e soffrire, per vivere la nostra coscienza." (Die Unbeholfenen, Gli incapaci, di Botho Strauß, traduzione di M.A. Orefice).
La rete che descrive le altre reti è il linguaggio, una gabbia, per dirla con le parole di Wittgenstein, dalla quale secondo il filosofo austriaco non si può uscire (Conferenza sull'etica), secondo altri invece questa rete sarebbe attraversata, "evasa" dallo spirito (Geist), se non che la presunta fuga dalla rete è ancora una volta detta con il linguaggio. Ciò che "attraversa la gabbia", forse, non entra nelle parole.
Immagine, Tobia Ravà
È un concetto chiave molto diffuso, tuttavia corre il rischio di essere sia una chiave che un catenaccio, una prigione dello spirito. Direi addirittura che una crisi della nostra coscienza – della quale non ci sono indizi – dovrebbe proprio trovare la sua origine nella validità generale di questo concetto. C’è di che impazzire, dovremmo essere presi dalle vertigini di fronte alla totalità delle connessioni, non certo da meno delle fantasie di un paranoico: tutto collegato insieme. In queste fantasie sembra sparire ogni differenza fra dentro e fuori, tra pensare e cervello, tra un’operazione militare e il modo di comunicare delle formiche, fra attivo e passivo. La rete tuttavia non è una definizione metaforica, piuttosto la variazione di una cosa. Dalla rete dei pescatori a quella neuronale o elettrica quel che varia sono le proprietà strutturali e materiali. Una metafora per la rete si trova con difficoltà. Potremmo scegliere un ragno come stemma della nostra coscienza contemporanea. E la dimensione nella quale viviamo e agiamo ora, potrebbe essere chiamata in modo altisonante una Aracnotopia, secondo il nome della tessitrice greca. Sempre più potere appartiene ai ragni (la parola tedesca Spinnen significa ragni ma anche tessere, impazzire ndr). E noi guardiamo e sorvegliamo tutto come loro trasformandoci in ragnose creature della coscienza. L’allegoria si spiega facilmente, il simbolo purtroppo no. Le immagini vanno in mille pezzi come vecchi vasi. Non sono sufficienti a contenere quello che andiamo facendo e dove ci troviamo. Noi stessi non sappiamo in quale zona, in che segmento dell’invisibile tela siamo attivi, né sappiamo se con il nostro fare o non fare distruggiamo parti utili della tela oppure se al contrario ne costruiamo di nuove. E questo perché la forma che ci forma si muove senza un obiettivo definito e senz’alcuna coerenza. In questo scambio pubblico di conoscenza e avvenimenti siamo incapaci di circoscrivere il luogo in cui ci troviamo come di definire la posizione della nostra persona, i confini del soggetto. Tutto quello che sappiamo, anche il sapere del passato, lo ordiniamo ora con l’aiuto del nostro nuovo organo-tessuto, che non ha ancora un nome, del nostro sentimento reticolare. Ormai non c’è più nessuno che pensi o agisca al di fuori di una rete. In lui e intorno a lui non c’è nulla che rimanga non tessuto. E sebbene io non voglia concederle la qualità di una metafora, la rete è oggi tuttavia l’idea più feconda per la nostra autocoscienza. Altrettanto importante ed enigmatica come in passato le parole labirinto, radice, torre, marionetta, isola, il filo della vita e altri segni o tropi. Paragoni che, al contrario della rete, reclamavano una centralità non una esclusività. Noi, invece, non abbiamo un’altra immagine oltre a questa. Non conosciamo e riconosciamo niente se non attraverso i nodi. Sinapsessere (Synapsein) sarebbe quindi la parola che ci si propone per comprendere il nostro agire e soffrire, per vivere la nostra coscienza." (Die Unbeholfenen, Gli incapaci, di Botho Strauß, traduzione di M.A. Orefice).
La rete che descrive le altre reti è il linguaggio, una gabbia, per dirla con le parole di Wittgenstein, dalla quale secondo il filosofo austriaco non si può uscire (Conferenza sull'etica), secondo altri invece questa rete sarebbe attraversata, "evasa" dallo spirito (Geist), se non che la presunta fuga dalla rete è ancora una volta detta con il linguaggio. Ciò che "attraversa la gabbia", forse, non entra nelle parole.
Immagine, Tobia Ravà
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