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lunedì 13 ottobre 2008
Beyond building or beyond architecture?
Le cose dette in inglese assumono più importanza di quelle dette in italiano per varie ragioni: la prima è che “suona bene”, poi molti (troppi in Italia) ancora l’inglese non lo conoscono e quindi hanno una sorta di timore reverenziale verso ciò che non capiscono, un’altra è che l’inglese è la lingua di Inghilterra e America, paesi vincitori nella storia, nella letteratura, nella musica.
Benvenuti allora a Out There (Là fuori) Architecture beyond building (l’architettura oltre il costruire), undicesima mostra internazionale di architettura (labiennale.org) che si svolge a Venezia fino al 23 novembre. Rassegna in cui gli architetti su un tema paiono interrogarsi senza requie: sarà mai possibile salvare la città dalla deriva, dalla moltiplicazione incontrollata, dagli squilibri ambientali e sociali?
Let’s go. In un video - in mostra ce ne sono non meno di un migliaio - Aaron Betsky spiega che l’architettura e il costruire sono due cose diverse, l’architettura è ciò che sta prima e intorno al progettare. Gli architetti diventano in alcuni casi videoartisti, tecnoartisti, popartisti, dando vita a una mise en scene del clima contemporaneo, del mondo fluido, per citare Bauman che cita Eraclito, nel quale ognuno è il tutto, e il molteplice è contemplabile da ognuno.
Ma andiamo ora ai Giardini per cercare di capire se non fosse il caso di chiamarla “Beyond architecture”. After the party, il padiglione del Belgio, stupisce con una distesa di coriandoli che copre il pavimento e dà modo ai visitatori di lanciarsi i “confetti”. Carnevale veneziano, logica fuzzy, confondersi dei popoli e delle idee, infinite combinazioni possibili del progettare. Spiega una didascalia: “Il progetto non coinvolge piani e modellini, ma un’architettura intesa come realtà da esperire fisicamente”, anche lanciandosi i coriandoli of course, che poi si ritrovano sul parquet di casa e ci si ricorda oggi dove s’era ieri.
Tanta creatività e tanti progetti dalla Spagna, fra cui un’interessante architettura-scultura sul lungomare di Marbella che “suona” al vento del mare. Padiglione Italia con spazio a mo’di Serpentine Gallery londinese, coperto da cuscini imbottiti su cui sdraiarsi attorno a colonne con video e cuffie, per sperimentare il guardare e l’esser guardati tipico delle nostre città, continuamente riprese dai telefonini-telecamera e spiate dalla onnipresente rete di videsorveglianza che segue ogni nostro passo. Geniale il filmato Koolhaas houselife (koolhaashouselife.com), in cui una simpatica domestica racconta le sue difficoltà nella pulizia dell’originale casa di Bordeaux, spiegando così in modo nuovo ed efficace l’architettura. Lungo il percorso, la curiosa stanza dei frigoriferi: apri e trovi un occhio magico, oppure delle radio, delle catene che ti impediscono di aprire la porta, delle diapositive appese a dei fili, una luce arancione. Frigoriferi anche al padiglione ceco per raccontare la spesa degli italiani. Poi, d’improvviso, fra il padiglione dell’Egitto e quello della Polonia, incontri Carlo Scarpa che ti parla da un monitor e tu, che non l’hai conosciuto, capisci che avresti voluto conoscerlo.
Sosta polacca quasi d’obbligo visto che è stata premiata con il Leone d’oro. Hotel Polonia mette a disposizione dei letti matrimoniali da affittare per una notte e una serie di spiazzanti fotomontaggi che trasformano stazioni in parchi acquatici e condomìni in cimiteri. Sulla parete di Israele filmati di colline e paesi che attraverso un “trascinamento digitale” si trasformano in dei paesaggi alla Max Ernst. Il padiglione americano, invece, si apre con un’aiuola coltivata a radicchio, finocchio, insalata; il tema è quello del radicamento dell’architettura... Riposante e intelligente nella sua semplicità il padiglione della Finlandia dedicato a musei e librerie.
Salutati dalla gas-pipe gialla dell’Estonia, lasciamo i Giardini per visitare gli spazi dell’Arsenale.
Start con “gli oggetti di Asymptote governati da un’aerodinamica perversa”. Più avanti, tra televisori e installazioni si legge: “Gli edifici si devono preparare alla propria assenza e comprendere la complessità delle proprie narrazioni. Invece di distruggere e ricostruire all’infinito, un futuro già obsoleto dobbiamo passare a strutture collaborative e sitemi redentori”. Buone intenzioni anche in altri pannelli: “L’obiettivo ultimo è creare una città diversa, aprire il dialogo sulla direzione da intraprendere, re-immaginare uno spazio pubblico condiviso e raggiungere un equilibrio sostenibile con l’ecosistema”. Visionario il corto che illustra il progetto Skycar City di Winy Maas e Grace La, i quali nel loro studio di Rotterdam sognano una città di macchine volanti. Questa tecnologia renderebbe superflui i parcheggi e le strade, “ma soprattutto libererà l’urbanistica dalla sua dipendenza dal piano”. Altri spunti: Singletown, la città illuminata dall’alto di Giammetta e quella invisibile di Tstudio. Un corridoio-collage di progetti e disegni, con pavimento in pendenza “effetto Escher”, è a poca distanza dalla Hypnerotosphere (ispirata alla Hypnerotomachia Poliphili , Venezia, 1499), di Nigel Coates, un salotto circondato da uno schermo circolare che accosta due uomini che danzano ai palazzoni della periferia romana. Proseguendo, la riedizione della mostra “Roma interrotta” del 1978, introdotta da uno scritto di Carlo Giulio Argan: “È più facile progettare le città del futuro che quelle del passato. Roma è una città interrotta perché si è cessato di immaginarla e si è incominciato a progettarla (male)”. Tra i disegni esposti, quelli dell’architetto Paolo Portoghesi che evidenziano le straordinarie corrispondenze tra le forre e i paesaggi naturali intorno a Roma e l’architettura e l’impianto viario di alcuni quartieri della Capitale. Sarebbe stato bello dedicare un intero padiglione a questo tema che non finisce di sorprendere, è come se l'uomo inconsciamente ripercorresse gli stessi sentieri. Anche il Cile si schiera dalla parte dell’architettura sostenibile mostrando abitazioni ed edifici tradizionali in cima a degli alti sgabelli di legno; un’immagine poetica e sognante, un piccolo villaggio in miniatura (foto accanto al titolo) all’interno del quale è piacevole vagare con lo sguardo. A Zara l’architetto Goran Rako costruisce una piazza, alimentata da energia solare, che si illumina e suona al ritmo delle onde. Verso l’uscita spunta un video, l’ennesimo, con uno schermo a neve e la celebre frase di Mc Luhan “The medium is the message”.
Una mostra gremita di ideas, alcune beyond architecture, e di una moltitudine di facce, alcune beyond imagination, che ti vengono incontro come coriandoli, e capita che alcune le conosci e non ti aspettavi di vederle lì, e così tra tanti coriandoli ho incontrato per caso Fabio, Alberto, Andrea e Cristina. See you.
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