È così facile difendere appassionatamente dei giudizi decisi;
difficile è invece riflettere serenamente. È facile interrompere la
comunicazione con asserzioni arroganti; difficile è invece penetrare al fondo
della verità instancabilmente, al di là di ogni asserzione. È facile farsi
un’opinione qualsiasi e irrigidirsi in essa, per risparmiarsi la fatica di
rifletterci ancora; difficile è invece avanzare passo passo, e non rifiutarsi
mai di investigare ancora. Dobbiamo ristabilire la disponibilità alla
riflessione. A questo scopo non dobbiamo
inebriarci con sentimenti di superbia, di disperazione, di ribellione,
di ostinazione, di vendetta o di disprezzo. È invece necessario che questi
sentimenti vengano accantonati,
perché si possa guardare alla realtà.
Ma, a proposito di questo discutere insieme, vale anche il
contrario: è facile pensare senza mai compromettersi e impegnarsi; ma è
difficile prendere la decisione vera, quando il nostro pensiero è aperto a
tutte le possibilità e se ne rende conto chiaramente. È facile evitare ogni
responsabilità a furia di bei discorsi; è difficile mantenere la propria
decisione ma senza testardaggine. È facile arrendersi alla minima resistenza,
secondo la situazione; è difficile, una volta presa una decisione incondizionata, tenere il cammino prescelto
nonostante la volubilità e l’elasticità del pensiero.
Quando noi riusciamo veramente a parlarci l’uno con l’altro ci muoviamo appunto nel dominio
delle origini. A tal fine deve rimanere in noi sempre qualche cosa che ci
faccia avere fiducia negli altri e ci faccia meritare la fiducia degli
altri. Allora soltanto si rende
possibile, nel dialogo, quella quiete nella quale si ascolta e si sente in
comune quello che è vero.
Per tutto questo vogliamo evitare di irritarci gli uni contro gli
altri. Cerchiamo invece di trovare insieme la via. La passione testimonia a sfavore della verità di chi
parla. Non vogliamo percuoterci
pateticamente il petto in segno di innocenza, per poter offendere gli altri. Ma
non debbono sussistere limitazioni, che derivino da una riguardosa riservatezza.
Né bisogna tacere per mitezza d’animo o illudere per consolare. Non c’è alcuna
domanda che non debba essere posta, alcuna cara vecchia ovvietà, alcun
sentimento, alcuna menzogna vitale che dobbiamo salvaguardare. Ma a maggior
ragione poi non ci si deve
permettere di colpirci sfrontatamente sul viso con giudizi provocatori, privi
di fondamento e formulati alla leggera. Noi apparteniamo gli uni agli altri;
dobbiamo sentire la nostra situazione comune, quando discutiamo insieme. In un
parlare di tal genere nessuno è giudice dell’altro. Ciascuno è nello stesso
tempo accusato e giudice.”
“La disposizione mentale a considerare gli uomini collettivamente,
a caratterizzarli e giudicarli in blocco, è oltremodo diffusa. Caratteristiche
di tal genere – ad esempio dei tedeschi, dei russi, degli inglesi – non
riguardano mai concetti di genere
sotto i quali possano venire sussunti i singoli uomini, ma indicano solamente il
tipo, a cui essi più o meno possano corrispondere. Questa confusione tra una
concezione basata sui generi e una basata sulle tipologie è il segno del
pensare in base a delle collettività: i tedeschi, gli inglesi, i norvegesi, gli ebrei – e così via:
i
frisi, i bavaresi – oppure: gli uomini, le donne, i giovani, i vecchi. Il fatto che
grazie alla concezione tipologica si viene pure a cogliere qualche cosa di
vero, non deve farci credere di aver compreso in tutto e per tutto ogni singolo
individuo, quando lo consideriamo designato da quelle caratteristiche generali.
Questa è una forma mentale che, attraverso i secoli, si trascina come un mezzo
per determinare l’odio reciproco fra i popoli e i gruppi umani. Questa forma
mentale, che dai più viene considerata purtroppo come ovvia e naturale, i
nazionalsocialisti l’hanno applicata
nella maniera peggiore e attraverso la loro propaganda fatta entrare
nelle teste quasi a martellate. Era come se non ci fossero più uomini, ma
soltanto appunto quelle collettività. Non c’è mai un popolo che sia un tutto
unico.”
Karl Jaspers, La questione della colpa
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