sabato 8 settembre 2012

Avere vent’anni




Avevo vent'anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita», scriveva Paul Nizan nel 1931. “Avere vent’anni a Tunisi e a Il Cairo” è il titolo dell’ultimo libro del sociologo e scrittore Khaled Fuad Allam (in libreria in autunno) che scompagina lo stereotipo della Primavera araba: “Non c’è rivoluzione nel mondo arabo, non è possibile - sostiene Allam. Lo scardinamento temporale tra un prima e un dopo appartiene alla cultura occidentale, tanto che Albert Soboul intitola un suo famoso saggio 1789, l’anno primo della libertà, nel pensiero islamico invece il tempo non appartiene agli uomini ma a dio.”

Se parlare di rivoluzione è fuorviante, nemmeno la rete per Allam ha quel ruolo centrale che le attribuiscono i media perché non si costruisce pensiero nei social media, non c’è un’autorità, un autore a cui riferirsi, i social media e internet, come il linguaggio giornalistico, agiscono nel presente, creano contemporaneità, passaggio veloce delle informazioni, ma per costruire un vero cambiamento è necessaria un’ideologia, un programma. Ho cercato di capire  chi sono i giovani che sono scesi in piazza, che musica ascoltano, che cosa leggono. Il loro animo è combattuto, spaesato, disorientato, tra un possibile cambiamento e un attaccamento molto forte alle loro radici. La Turchia per molti rappresenta un modello dove Oriente e Occidente hanno trovato un terreno d’incontro. Se da un lato si guarda alla Turchia, dall’altro si discute dell’articolo sull’uguaglianza uomo donna per sostituire il termine uguaglianza con complementarità, alcuni  movimenti fondamentalisti caldeggiano l’introduzione di una norma sulla poligamia. La morale sessuale è fondamentale per l’ordine politico, il ’68 in questo senso è stato innanzitutto un movimento che sanciva l’uguaglianza tra uomo e donna." Basterebbe questa lente per comprendere quanto la democrazia sia ancora lontana nei paesi della Primavera araba.
Attirati dalla modernità e nello stesso tempo ancorati alla sharia, i giovani di Tunisi e del Cairo scendono in piazza, usano Facebook, ascoltano la musica del rapper El general e nello stesso tempo non possono rappresentare la figura umana nelle opere d’arte. Una sofferenza esistenziale descritta in modo efficace dallo scrittore marocchino Abdellah Taia in Une mélancolie arabe:
“La fine di me stesso  come credente. Senza religione. Senza dio. Gettato nel vuoto, con le vertigini, impaurito nel labirinto del Cairo. La follia. La sconfitta. Ed io nel cuore di un mondo arabo che, in fondo, nemmeno lui crede più a nulla. Un mondo assurdo. Un mondo-prigione, dove la poesia è ormai merce rara. Un mondo in cui  gli stessi errori vengono instancabilmente  ripetuti. E in cui era sempre, di certo, colpa degli altri, gli occidentali. Io non avevo più tenerezza per lui. Neanche per me. In me avevo all’improvviso una lucidità impeccabile. L’orrore. Io cadevo. Il mondo arabo cadeva. Prima di me, insieme a me. Noi ci trovavamo in perfetto accordo, ma era solo apparenza. Noi avevamo perso la testa, in un istante. Ma avevamo nutrito la speranza di lasciarci, emigrando da noi stessi. Noi eravamo, l’uno e l’altro, in caduta, nel grido, nella nostalgia, nell’ignoranza.
Nulla sarebbe stato come prima. Dio non esiste più. Ne avevo l’intima convinzione in quel momento. Ero maledetto. Maledetto, maledetto.”

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