L’ultima scena è onirica, Jean Dastè sei tu,
il tuffo dall’Atlante, e sott’acqua Enrico Ghezzi nuota in un groviglio di riflessi, più a destra
Massimo Donà suona la tromba curvo che sembra Chet Baker. Nuota Ghezzi nella
storia del cinema, anzi nel Cinema, e la sua voce è differita, come quando lo
vedevi a Fuori Orario con le cuffie da telegrafista, i capelli arruffati, la
voce polverosa, la luce sottomarina; la voce di Ghezzi rinvia a una passione
totale, a una discesa senza ritorno nei fotogrammi. Non simula niente, nuota
nell’Arrivée d’un train en gare à La Ciotat o ne L’uscita dalla
fabbrica,
“che già annunciava il mondo come controllo di facce ... grazie al cinema si
acchiappano i facinorosi”,
tra le pagine del diario di Kafka: “Gli spettatori impietriscono quando passa il treno”, tra le pagine del racconto Il desiderio di diventare un Indiano: “Poter essere un pellerossa, sempre bardato, e sul cavallo al galoppo giù nell’aria, alzato sulle zampe posteriori, vibrare continuamente sul suolo vibrante finché si lasciano gli speroni, perché non c’erano speroni, finché si lasciano le redini, perché non c’erano redini, e vedere a stento il terreno davanti a sé come una landa piatta, già senza collo e senza testa di cavallo”, l’immagine come il cavallo del sogno scompare nella velocità dei fotogrammi, scorrono sullo sfondo i fotogrammi di Rohmer, Bunuel, Malick, “il cinema è l’impossibilità di uscire dal fotogramma”, Il prossimo villaggio* non si raggiunge mai, nemmeno se si ha a disposizione l’intera vita, Quanti Ghezzi vedi adesso, molteplici schermi con il suo volto rinchiuso tra le pellicole in bianco e nero, a colori, mute, con i sottotitoli.
tra le pagine del diario di Kafka: “Gli spettatori impietriscono quando passa il treno”, tra le pagine del racconto Il desiderio di diventare un Indiano: “Poter essere un pellerossa, sempre bardato, e sul cavallo al galoppo giù nell’aria, alzato sulle zampe posteriori, vibrare continuamente sul suolo vibrante finché si lasciano gli speroni, perché non c’erano speroni, finché si lasciano le redini, perché non c’erano redini, e vedere a stento il terreno davanti a sé come una landa piatta, già senza collo e senza testa di cavallo”, l’immagine come il cavallo del sogno scompare nella velocità dei fotogrammi, scorrono sullo sfondo i fotogrammi di Rohmer, Bunuel, Malick, “il cinema è l’impossibilità di uscire dal fotogramma”, Il prossimo villaggio* non si raggiunge mai, nemmeno se si ha a disposizione l’intera vita, Quanti Ghezzi vedi adesso, molteplici schermi con il suo volto rinchiuso tra le pellicole in bianco e nero, a colori, mute, con i sottotitoli.
Ritornano, mentre lo guardi, questi tre giorni: piazze
girevoli, differenze pure, lampi di sole, bocche espanse, sterzate improvvise,
baci di vento, culi privilegiati, sirene scardinate, replay urbani, giardini
corsari, pubblici silenzi, fumanti tabacchi, piatti gettati, saracinesche alzate, case private,
distributori di grammatiche, vecchi palazzi, ciabatte provvisorie,
titaniche prolunghe, pareti bucate, sorrisi inconsci, gesti pertinenti, spiagge
notturne, episodiche intercettazioni, passaggi segreti, semi seminatori,
nutrimenti esistenziali, piedi stanchi, regole spezzate, zainetti e borse in
tela, molte borse in tela, anime vagabonde, improvvisazioni emozionate,
fabbriche defunte, sedie occupate, bobine di legno, connessioni digitali,
stanze ulteriori, luoghi spettrali, disegnatori di pensieri, retweet: “Le parole sulle nostre labbra toccano quelle delle
persone dalle quali le abbiamo sentite la prima volta Luigi Boccanegra”, se incominci a pensare a queste parole elabori
romanzi, colori affreschi, sfogli paesaggi, inventi sceneggiature, raccontare
la tua storia, diceva Derrida, è un modo di fare la verità, il film comunque
sta per finire: Enrico possiamo fare una foto insieme ... L’importante è che
sia in movimento.
*Titolo
di un racconto di Kafka
(domenica sera a http://www.comodamente.it/)
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