Un libro si produce, avvenimento minuscolo, piccolo oggetto maneggevole. È da questo momento preso in un gioco senza posa di ripetizioni; i suoi doppi, attorno e lontano da lui, si moltiplicano; ciascun lettore gli dà, per un istante, un corpo impalpabile e unico; frammenti circolano, che sono fatti passare per lui, che si dice lo contengano quasi tutto e nei quali alla fine gli capita di trovar rifugio.; i commenti lo raddoppiano: altri discorsi in cui deve infine apparire lui stesso, riconoscere le cose che ha rifiutato di dire, liberarsi di quel che, rumorosamente, fingeva di essere. La riedizione in un altro tempo, in un altro luogo, è daccapo uno di questi doppi: né completamente illusione né completamente identità. (…) Mi piacerebbe che un libro, almeno dalla parte di chi l’ha fatto, non fosse nient’altro che le frasi con cui è fatto; che non si sdoppiasse in quel primo simulacro di sé stesso che è una prefazione, e che pretenda di imporre la propria legge a tutti coloro che negli anni a venire potranno essere formati da lui. Vorrei che questo oggetto-avvenimento, quasi impercettibile fra tanti altri, si ricopiasse, si frammentasse, si ripetesse, si simulasse, si raddoppiasse, sparisse infine senza che la persona cui è capitato di produrlo possa mai rivendicare il diritto di esserne il maestro, di imporre quel che voleva dire, né di dire quel che doveva essere. In breve, mi piacerebbe che un libro non si assegnasse da sé quello statuto di testo cui la pedagogia o la critica sapranno ricondurlo; ma che avesse la scioltezza di presentarsi come discorso: battaglia e, insieme, arma, strategia e urto, lotta e trofeo o ferita, congiunture e vestigia, incontro irregolare e scena ripetibile.
Michel Foucault, liberamente dalla prefazione a Storia della Follia
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