Ieri a Pordenone un serpente di folla stringeva il Teatro Verdi sotto una pioggia battente. Alle tre erano già in coda per non perdere l’intervento “I miti del nostro tempo” del filosofo pop Umberto Galimberti. La fila copriva anche l’entrata del ridotto dove si entrava per assistere a “Ripensare Derrida” con Maurizio Ferraris e Silvano Petrosino. Per questo secondo appuntamento di Pordenonelegge, invece, una settantina di persone in sala e posti ancora liberi. Ferraris ha preso le mosse da Rorty e dal suo libro del 1979 “La filosofia e lo specchio della natura” che mostra tre connotati del postmoderno che sono stati poi manipolati dai regimi populisti: la solidarietà che prevale sulla verità, il non essere attaccati alle proprie tesi, anzi il prenderle anche un po’ in giro, il desiderio come qualcosa di rivoluzionario (Deleuze: la rivoluzione desiderante). Si è poi soffermato sugli “Spettri di Marx” e sugli amanti di questi spettri che si comportano in modo analogo al marito descritto da Cartesio ne Le passioni dell’anima (l’importante è che il beneamato non ritorni davvero):“Quando, per esempio, un marito piange la moglie morta che tuttavia, come accade talvolta, gli dispiacerebbe di veder resuscitare, può accadere che il suo cuore sia stretto dalla tristezza eccitata in lui dall’apparato funerario e dalla mancanza di una persona alla cui conversazione era abituato (…) ma nel segreto del suo cuore egli prova un’intima gioia, la cui emozione ha tanta forza da non poter essere diminuita dalla tristezza che l’accompagna.” “Nei manuali – ha continuato Ferraris – Derrida è citato tra i postmoderni, la decostruzione era una reazione al mondo solido compatto che la precedeva, ma nel mondo attuale dove tutto è decostruito, a partire dalla politica alle comunicazioni, agli affetti, c’è bisogno di “ricostruire” la decostruzione attraverso vari passaggi. Secondo Ferraris è necessario chiarire – in questo senso imbarbarire – il pensiero di Derrida che era un intellettuale così raffinato da non enunciare mai le proprie tesi in modo diretto preferendo suggerirle attraverso i ragionamenti. A proposito del primato dell’etica sull’ontologia che accomuna Derrida a Levinas e Rorty, va detto che non si può fondare un’etica senza un’ontologia: “Se non ammetti l’esistenza del mondo esterno non c’è più nessuna differenza tra sognare di fare una cosa e farla realmente. È così che Feyerabend può arrivare ad affermare che non ci sono criteri oggettivi per ritenere il sistema copernicano superiore a quello tolemaico, che l’amministrazione Bush sosteneva proposito dell’Iraq “Ormai siamo un impero, creiamo noi la verità”, che la foto di un Giovane Umberto I è più volte utilizzata come una foto giovanile di Nietzsche” (si veda a tal proposito l’interessante articolo di Ferraris http://members3.boardhost.com/nietzsche/msg/1165404051.html). C’è qualcosa di “duro”, di irriducibile nel mondo esterno. Quando Derrida dice “nulla esiste al di fuori del testo” si rende necessario “ricostruire” la frase in questo modo “nulla del mondo sociale esiste al di fuori del testo”. Per Silvano Petrosino in Derrida è più rilevante il gioco del pensiero della formulazione di una tesi: “Il problema non è esporre una tesi e vincere sull’altro, ma il tentativo di pensare, pensare non è formulare una tesi ma è movimento di pensieri. Marino, un caro amico, dice una cosa bellissima: “Ogni volta che leggo i testi di Derrida mi viene voglia di pensare, un grande autore è colui che ti sollecita, ti stimola, forse la parola giusta è fecondità. Mi accade anche con Lacan che però regolarmente non capisco. Ci sono invece certi scrittori anche famosi e certe conferenze, spero non questa, che ti gettano in uno stato di depressione e ti fanno venire voglia di urlare “Voglio una donna” come Ingrassia sull’albero in Amarcord di Fellini.” Petrosino si è poi soffermato sul complesso rapporto fra Derrida e la sua “judéité”, le serrate critiche a Levinas e poi la sua sorprendente dichiarazione “Io sono pronto a sottoscrivere tutto quello che dice Levinas”. Derrida coglie levinasianamente in una lettura talmudica un concetto fondamentale: “La coscienza non è il ripiegamento su di sé ma è l’urgenza di una destinazione all’altro”. Il tema della destinazione è uno die grandi temi derridiani (La carte postale), la coscienza è al tempo stesso coscienza e alterocoscienza, apertura. Petrosino e Ferraris hanni quindi sfiorato i temi della decisione, dell’opinione radicale, dell’animalità e della comprensione (per Sant’Agostino non c’è comprensione senza una sorta di simpatia). Purtroppo l’incontro è stato bruscamente interrotto, proprio quando stava entrando nel vivo per lasciare spazio ad altri appuntamenti in una logica televisivo-sequenziale poco derridiana e per niente raffinata, ma molto postmoderna. Teatro esaurito, invece, per Umberto Galimberti che ha riproposto le sue tesi sul dominio della tecnica che esclude l’uomo dalla responsabilità e lo rende psicoapatico e depresso. Un processo che è cominciato con la seconda guerra mondiale. Gitta Sereny ha intervistato per 170 volte Franz Stangl comandante del campo di concentramento di Treblinka, chiedendogli che cosa provava quando ordinava lo sterminio di esseri umani. Stangl alla fine rispose: “Io ero un perfetto esecutore di ordini”. Nell’era della tecnica per essere riconosciuto devi far bene le cose, il resto non è di tua competenza e non sei responsabile di quello che fai. Il filosofo Günther Anders, autore nel ’56 del libro L’uomo è antiquato, in cui teorizzava l’inadeguatezza dei sentimenti umani nei confronti delle macchine, scrisse una lettera di sessanta pagine al pilota che sganciò la bomba su Hiroshima, il quale intervistato in tempi successivi dichiarò: “That was my job”. E così probabilmente risponderebbe oggi un operaio che lavora per una fabbrica che costruisce mine o mitragliatori o un manager che investe in fondi senza saper in quali imprese gli investimenti verranno poi utilizzati. Nella società della tecnica l’identità è rapportata al riconoscimento degli altri, riconoscimento che viene accordato a chi fa qualcosa in una determinata posizione. Chi non è riconosciuto in questa società, chi non riesce a fare qualcosa, ad avere successo, cade in una crisi di identità, in uno stato di psicoapatia, di depressione per inadeguatezza al quale cerca di sfuggire con l’suo di psicofarmaci, cocaina o azioni che gli regalino cinque minuti di celebrità-identità. Un'altra conseguenza del dominio della tecnica secondo Galimberti è il dominio della logica binaria che porta all’utilizzo di un’intelligenza convergente ossia di un’intelligenza che cerca la soluzione all’interno del problema dato, è la logica dei computer, dei test, dei telefonini, delle trasmissioni quiz prima del telegiornale, mentre è noto che la storia del pensiero, si pensi solo alla rivoluzione copernicana o alla scoperta della relatività è progredita sempre in termini di pensiero divergente. “Ma l’umanità gregge – ha concluso Galimberti – desidera l’animale capo e chi la pensa diversamente se ne va al manicomio”. Poi ha guardato il pubblico e in mancanza di qualcuno dell’organizzazione di Pordenonelegge che lo salutasse e ringraziasse o che desse spazio alle domande del pubblico si è alzato e tra gli applausi ha lasciato il palco da solo. Coda anche per uscire: al banco del ritiro-ombrelli quattro ragazzini in maglietta gialla faticavano non poco a consegnare ai viandanti i loro bastoni della pioggia ordinatamente infilati in armadi con scomparti numerati: il mio era nella feritoia s12. L’altra cosa che la tecnica tende ad eliminare è il contatto umano, prendi l’ombrello all’s12 non l’ombrello di Mario, l’utente numero 67 non la signora Tarantini, volo az 234 non l’aereo pilotato da Ignazio Salti. Quando si impedisce di immaginare un volto si nega l’uomo, e quando invece lo si mostra come in Facebook in realtà si continua a negarlo perché quello che importa non è l’incontro ma che egli sia nella rete.
p.s. Un sociofilosofo pop, Francesco Alberoni, scrive in un suo recente articolo dell'11 ottobre intitolato "Saremo (tutti) famosi nel villaggio di Facebook": "Tutti sono protagonisti, non c'è più la separazione fra chi guarda e chi è guardato. Nel gruppo, che può arrivare a migliaia di persone, si crea così un clima di amicizia, di simpatia di confidenza, di rispetto fiducioso e ciascuno si sente riconosciuto. È in questo mondo sotterraneo, che nessuno conosce e controlla, che maturano i nuovi rapporti sociali, i nuovi giudizi, i nuovi valori." Sembra che Alberoni non abbia mai usato Facebook, perché anche nei gruppi che contano cinquemila contatti i commenti o i rapporti veri non sono più di dieci, quindici. E non c'è nessun clima di amicizia, in FB è tutto molto autoreferenziale. I rapporti sociali non si creano in Facebook, FB può aiutare ad incontrare una persona che fa il tuo stesso lavoro, ma questo capita "semel in anno". I rapporti sociali, come sempre, si creano per vicinanza fisica, per appartenenza ad una struttura, per rapporti di convenienza-potere. Inoltre non è vero "che nessuno conosce e controlla questo mondo sotterraneo", tant'è che Mark Elliott Zuckerberg (il fondatore di FB) è diventato un billionaire vendendo informazioni di marketing alle multinazionali e inserzioni alle aziende. In buona sostanza mentre qualcuno passa e regala il suo tempo in FB mister Zuckerberg accumula miliardi. Quello di far soldi è un valore vecchio di secoli. Di nuovo mi pare ci sia una malintesa amicizia virtuale che in realtà ha un'unica funzione: essa ammortizza l'isolamento che deriva da una diffusa difficoltà ad avere rapporti sociali, perché la sfida d'incontrare l'altro-altro comporta un impegno e un'energia molto maggiori di un semplice click su FB. Isolamento che è collegato a quel senso di spaesamento che ogni individuo prova nel suo confrontarsi quotidiano con l'esistenza e al quale tenta di sottrarsi, spesso citando motti o frasi proprie o di autori famosi riguardanti il senso della vita, l'amore, l'amicizia, che hanno lo scopo di rendere evidente a sé e agli altri che "è proprio così", "bello l'ho sempre pensato anch'io", un modo di rassicurarsi, di dirsi che esistono delle verità (brevi e lapidarie, pret a porter) e che quindi qualcosa della vita l'abbiamo capito anche noi. Facebook è l'oppio dei nuovi popoli digitali.
Nelle foto: Maurizio Ferraris e Silvano Petrosino presentati da Eliana Villalta; Umberto Galimberti
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