La sala della biblioteca con le pareti in mattoni rossi si
riempie. Tra pochi minuti comincia la serata letteraria. Le sedie sono tre:
sulla prima una signora bionda, sulla seconda la sua giacca. Prendo posto sulla
terza. Arriva un amico della signora, grugno antipatico, chili di troppo,
cappotto in cashmere e cappello da pioggia neri. Guarda verso di me con
insistenza, credo sia incuriosito dallo schermo dell’iPhone sul quale controllo
la posta. A un certo punto dice: Scusi si potrebbe spostare che ci serve la
sedia per mettere i cappotti. Mi volto e rispondo: Mi sembra una richiesta
inusuale, comunque... Comunque non mi piace sedere accanto agli stronzi (questo
lo penso), e mi sposto nella fila vicino. Racconto l’aneddoto alla spettatrice
alla mia destra. Ridiamo. E quelli che ti fanno spostare sugli Eurostar?
Arrivano sicuri con il loro biglietto in mano: Quello è il mio posto. Tu guardi
lo scompartimento mezzo vuoto ma loro continuano a fissarti, il messaggio è Spòstati,
e allora ti sposti. Il biglietto non dà diritto a un bene insostituibile, ma
solo a un posto uguale a tanti altri. Come la sedia dei cappotti non è che una
delle tante disponibili. Cos’è in gioco nello spostamento? Una lotta per la
proprietà, un’affermazione d’onnipotenza, un’inconscia ricerca del proprio
posto nel mondo? Non lo so, ma gli spostàti (dal territorio del buon senso e
dell’educazione) non siamo noi sono loro.
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