mercoledì 13 marzo 2013

Gli spostati



La sala della biblioteca con le pareti in mattoni rossi si riempie. Tra pochi minuti comincia la serata letteraria. Le sedie sono tre: sulla prima una signora bionda, sulla seconda la sua giacca. Prendo posto sulla terza. Arriva un amico della signora, grugno antipatico, chili di troppo, cappotto in cashmere e cappello da pioggia neri. Guarda verso di me con insistenza, credo sia incuriosito dallo schermo dell’iPhone sul quale controllo la posta. A un certo punto dice: Scusi si potrebbe spostare che ci serve la sedia per mettere i cappotti. Mi volto e rispondo: Mi sembra una richiesta inusuale, comunque... Comunque non mi piace sedere accanto agli stronzi (questo lo penso), e mi sposto nella fila vicino. Racconto l’aneddoto alla spettatrice alla mia destra. Ridiamo. E quelli che ti fanno spostare sugli Eurostar? Arrivano sicuri con il loro biglietto in mano: Quello è il mio posto. Tu guardi lo scompartimento mezzo vuoto ma loro continuano a fissarti, il messaggio è Spòstati, e allora ti sposti. Il biglietto non dà diritto a un bene insostituibile, ma solo a un posto uguale a tanti altri. Come la sedia dei cappotti non è che una delle tante disponibili. Cos’è in gioco nello spostamento? Una lotta per la proprietà, un’affermazione d’onnipotenza, un’inconscia ricerca del proprio posto nel mondo? Non lo so, ma gli spostàti (dal territorio del buon senso e dell’educazione) non siamo noi sono loro.

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